Sovversione, solitudine e parole. Intervista a Mariangela Capossela
Per la prima volta Mariangela Capossela racconta in un’intervista la sua complessa e sfaccettata ricerca artistica legata a pratiche relazionali e sociali, che in questi anni sta portando avanti con costanza nell’ambito dello Sponz Fest. Parliamo del festival organizzato dal fratello Vinicio, il quale ha detto di lei: “È il vero genio di famiglia”.
Lo Sponz Fest, il festival di musica e tradizioni in Alta Irpinia, nato da un’idea di Vinicio Capossela – giunto quest’anno alla quarta edizione e in chiusura oggi, domenica 28 agosto, dopo una settimana di musica, incontri, scambi, dibattiti e altre follie, nel segno del recupero dei luoghi e del loro spirito – ha anche una sezione dedicata all’arte: SponzArti (letteralmente “mettersi al bagno”). Negli anni ha ospitato diversi artisti – da Adrian Paci a Claudia Losi –performance ed esposizioni, e anche quest’anno non ha negato il suo contributo all’evento, soprattutto grazie al lavoro organizzativo e curatoriale e alla ricerca artistica di Mariangela Capossela.
Mariangela, classe 1970, milanese cresciuta in Emilia, ha frequentato l’Accademia di Belle arti di Bologna e la facoltà di Lingue. Ha esposto in Italia dal 1995 al 2000 e dal 2004 vive in Francia dove, dopo anni consacrati alla ricerca sulla letteratura della migrazione magrebina, ha ripreso l’attività artistica ed è impegnata in progetti associativi coi migranti. Le opere presentate dalla sezione Arte si inscrivono nel tema della polvere dello Sponz Fest 2016 e cercano un dialogo fra antichità, tradizione e contemporaneità.
Mariangela ha contribuito quest’anno con due performance, in linea di continuità con altre azioni che negli anni ha attuato nei paesi dell’Alta Irpinia, portando avanti, secondo gli ultimi orientamenti dell’arte sociale e pubblica (si veda a riguardo l’ultima pubblicazione di Bianco-Valente e Pasquale Campanella A Cielo Aperto. Pratiche di collaborazione nell’arte contemporanea a Latronico), una ricerca attenta alle radici, alla storia, a un’estetica plurale e condivisa. Ecco la prima, esclusiva intervista rilasciata da Mariangela Capossela in merito al suo lavoro.
La tua ricerca trae spunto dal tuo passato e dai luoghi della formazione e dell’infanzia. Nelle opere, e soprattutto nelle performance, tenti di dare nuove connotazioni concettuali alle relazioni artistiche e artigianali locali, cercando le trame delle (micro)storie e quindi del tempo che scorre. Ci puoi spiegare in breve la tua indagine?
Credo che la traiettoria di ogni artista si nutra di un suolo di “intranquillità”. Il mio è quello instabile e mancante di una lunga storia di emigrazione, che mi precede e mi sovrasta, chiedendomi di farne qualcosa. Come dice George Perec, avrei potuto nascere in qualsiasi parte del mondo, fuorché nel luogo di coloro che mi hanno generato. Quando si va a fondo nella storia dell’emigrazione del Sud d’Italia (da cui provengo) non si può più pensarla come puro fatto casuale, uno di quegli incroci del destino di una famiglia o due che hanno scelto di partire. Ci si confronta invece con un trauma che non è individuale, bensì collettivo e che in maniera contorta sta addirittura alla base della formazione stessa del nostro Paese. E quindi della nostra identità.
Cosa intendi per trauma?
Parlo di trauma non per percepirci come vittime, ma perché credo che non ci sia ancora una coscienza di che cosa abbia significato in termini sociali, economici e culturali la storia dell’emigrazione italiana e che sia ora di iniziare a nominare le cose con le giuste parole. Il tempo degli eventi traumatici è un tempo che non scorre, è un passato che non passa mai, è una parentesi che non si chiude. Dover fare i conti con la domanda insistente della mia storia di sradicamento mi ha portato a cercare e ad analizzare in prima persona per poi ad andare verso l’altro con le mani aperte per accogliere e raccogliere, riannodare e ricucire, con un gesto artistico che di base si muove su un terreno di “impegno”, ma che poi deve trovare un’espressione creativa poetica. Si può denunciare sussurrando.
Dunque il passato individuale ha per me un forte potenziale creativo cui attingere quando fa da cassa di risonanza e dialoga con la Storia, così come micro-storie quando dialogano con un concetto allargato di individualità collettiva.
Tuo fratello Vinicio, in una recente intervista, riflettendo sul suo ultimo lavoro Canzoni della Cupa, affermava: “Quello che sta sopra, in vista, è la mia cultura, quello di cui mi sono nutrito da quando sono nato. Quello che sta sotto è quello che c’era prima, molto prima. Il mio lavoro non si ferma alla contemplazione delle radici. Non le esclude, ma non ne fa il soggetto”. Anche il tuo lavoro, mi sembra, non si ferma alla contemplazione della tradizione ma parte dai fili, a volte interrotti, della storia per privilegiare un’estetica plurale, una narrazione che esula poi dal limitato territorio d’elezione. Questo sguardo ampio nella tua pratica artistica serve a mio avviso a non idealizzare il luogo relegandolo a “panorama”, ma a far emergere le sue problematiche. L’arte, in tal caso, può essere una regione di confine?
Nell’orizzonte culturale che ho evocato prima il luogo è una questione centrale. Chi è figlio delle partenze si confronta con dei ritorni indecifrabili in cui l’idealizzazione occupa senz’altro un posto di rilievo che viene però controbilanciato dalla parte oscura, di ciò che non si riesce a capire, che resiste allo stereotipo. È proprio questa parte che l’arte prende in gestione. E l’artista deve fare dei tragitti tra l’alto e il basso, il fondo oscuro e la superficie omertosa. L’arte partecipa così, insieme ad altre discipline ma con una specificità tutta sua, alla ridefinizione dei luoghi. La sua specificità è insieme il dritto e il rovescio della medaglia, perché, infatti, nell’azione artistica sul mondo ci sono la leggerezza e l’evanescenza, toccare parti dell’umano che non hanno peso rispetto alle cose “serie”. Questo le permette ogni libertà, ma al tempo stesso di non essere mai presa sul serio.
Lo Sponz Fest è un evento complesso che ricerca una nuova ritualità attraverso il filtro delle arti, un evento capace di trasformare elementi antropologici in spunti creativi. È l’arte, oggi, smarrito il racconto e il legame sociale-religioso, a preservare i “sensi” dei luoghi. Nelle tue ultime performance inserite nell’ambito dello SponzArti, Amore in polvere e Il velo della sposa, hai reinterpretato identità e memoria storica, mettendo in relazione l’arte con i luoghi e con i corpi in un discorso intimo e collettivo allo stesso tempo. Ci racconti la genesi di queste due opere?
Lo Sponz Fest mi ha dato l’occasione di rimettere a zero le lancette, di allontanarmi dalla pratica artistica solitaria per uscire allo scoperto e, come i contadini che quando andavano a lavorare nei campi, “andare fuori”. Uscire da me e confrontarmi con gente che conoscevo senza conoscere e viceversa. Uscire dallo studio e andare in piazza. È stata per me una scoperta illuminante, che mi ha fatto conoscere un nuovo e benefico senso di fare arte. Costruire un progetto artistico con persone di tutte le età che non hanno mai sfiorato nessuna esperienza di arte contemporanea mi ha insegnato che l’arte ha senso a maggior ragione quando esce dalla “ristrettezza” del suo sistema elitistico. Per me è sempre stato molto imbarazzante non poter spiegare alla gente comune quello che facevo, non riuscire a trovare le parole giuste per condividere qualcosa che invece poteva essere capito solo da pochi. Con il ciclo di lavori collettivi che ho realizzato allo Sponz Fest, ho capito invece che la condivisione era possibile a patto di parlare la stessa lingua, tanto simbolica che gestuale. Coinvolgere cioè l’altro con un’attività che provenisse da un terreno comune di cose abbandonate e che chiedevano di essere riprese in mano.
Parliamo delle opere presentate quest’anno.
Il festival quest’anno ha realizzato il sogno di fare ripartire il treno della linea locale che aveva per anni allontanato e ricongiunto migliaia di persone. La performance Amore in polvere è stata dunque un omaggio alle coppie pendolari, a quelle separate dell’emigrazione, un omaggio alle parole che si dicono e non si dicono in coppia. Un invito dunque a riaccendere la parola, a bruciare quello di cui volevamo disfarci e a tenerne la traccia al tempo stesso, realizzato però con il linguaggio della festa e della ritualità.
Il velo della sposa, invece, è un tuffo in quella parte oscura di cui parlavo, nella zona di indecifrabilità del luogo e dell’identità. Avevo da anni l’immagine interiore di un lunghissimo velo che avrei voluto vedere aprirsi sopra quelle colline che mia madre aveva visto uscendo dalla chiesa dopo il rito nunziale. Ci ho lavorato prima su carta poi su tessuto e poi ho preso coraggio e ho coinvolto il sindaco e una trentina di donne per realizzare la performance.
Il velo della sposa, opera-performance che sollecita sicuramente una riflessione sulla condizione femminile ma apre al contempo una serie di suggestioni legate al materiale, porta a riflettere sulla pratica del cucire, ricucire, filare o sfilare nell’attuale ricerca artistica. Questo ritorno al tessuto, a una materia aerea che disvela e copre, in stretto contatto col corpo e quindi in bilico tra sacro e profano, è molto affascinante e mi ricorda una frase di Philippe Petit tratta dal Trattato di funambolismo: “Chi è fiero della propria paura osa tendere cavi sui precipizi; si lancia all’assalto dei campanili; allontana e unisce le montagne. Ecco il viaggio da fare: alzati quando il filo si mischia alla carta del cielo”. L’arte attuale, e la tua in particolare, è un tendere e cucire fili sui precipizi e sugli squilibri della nostra società?
Ricucire lo strappo è senz’altro una necessità e una pratica diffusa che segue gli stravolgimenti culturali. Nel mio caso specifico è il gesto da cui sono ripartita quando ho ripreso la pratica artistica dopo una lunga interruzione. Mi sono rifugiata in uno studio, il primo vero atelier che ho avuto solo a quarant’anni suonati, e ho cucito carta strappata con punti di sutura e cuciture di rattoppo per un anno. Ho cucito vegetali recisi che trovavo sui marciapiedi, e che raccoglievo e “salvavo” in un bozzolo. Poi, tornando nelle terre d’origine, il confronto col tessuto era d’obbligo, poiché la figura femminile qui è “imbozzolata” in un passato di lenzuola, corredi, veli, centrini e lane. E dovevo ripartire da questo binomio tra donna e tessuto per stravolgere dal basso le tradizioni di egemonia maschile. Fare del tessuto, nelle sue varie forme, una metafora del tessuto sociale e del legante sociale e solidale. Il precipizio da affrontare era ed è sempre quella parte oscura della cultura e del luogo in cui tuffarsi con l’incoscienza dell’infanzia, ma facendo forza sulla fiducia interiore di un gesto necessario. Il precipizio è anche quello dell’errore, del dire stonato o dire troppo qualcosa che chiede una risposta ma che deve restare una domanda. Dopo la performance del velo, noi tutte eravamo in lacrime senza sapere perché, eravamo avvinte dalla vista del velo nel cielo, tutte continuavano a chiedermi: “Ma cosa significa?”. Tutte queste domande che si facevano eco nell’emozione forte mi hanno rassicurato sulla riuscita del lavoro. Anche se avevo sfiorato il pericolo della lettura conservatrice e religiosa, ho capito che qui era quella la lingua da usare e che era giusto “assaltare il campanile” in pura leggerezza.
La progettualità praticata nei tuoi laboratori è sicuramente un elemento fondamentale per il dialogo e l’interazione consapevole con i cittadini. Come hanno risposto le comunità locali a questi tuoi lavori fortemente simbolici sugli spazi e suoi luoghi delle loro esistenze?
Ho imparato poco a poco la pratica dell’arte “sociale” o arte pubblica. La vertigine di non sapere più chi era l’autore, chi ero io e chi erano le altre persone è stata destabilizzante e al tempo stesso inebriante. Ho visto realizzarsi il requisito indispensabile che a vent’anni vedevo come il principio “assoluto” per riuscire a fare una vera opera d’arte: quello di cancellare ogni traccia di individualità dell’artista. Certo, a vent’anni ci si chiede sempre troppo, dopo i quaranta ero molto meno esigente ed è venuto da sé. Ho finalmente scoperto quanto sia importante il gioco, la parte ludica e la parte socializzante nella pratica artistica. Ma è un terreno molto franoso, perché con niente si rompe l’armonia e gli altri non hanno più voglia di continuare. È un esercizio di equilibrismo dell’autorialità e dell’autorità, ma anche del linguaggio da usare per fare accogliere un’idea che si pensa condivisibile da tutti e che in pratica può non esserlo.
L’esperienza sui luoghi dello Sponz che risultati ha dato da questo punto di vista?
Nel contesto del festival, questi scogli erano notevolmente semplificati dalla voglia di partecipare alla festa quindi il lavoro ha veramente potuto andare molto lontano e agire su territori intimi e di condivisione profonda, che non mi aspettavo di poter toccare.
Il primo progetto di tre anni fa, L’esposizione del Lenzuolo, ha creato una vera trasformazione sociale tra le donne anziane che hanno continuato in seguito a ritrovarsi autonomamente e a chiedermi poi regolarmente nuovi progetti. Lavorare sulla sovversione delle tradizioni ha convinto tutte della necessità di uscire allo scoperto e creato fiducia sulla legittimità di dirsi anche con le parole umili delle origini contadine. Lavorare sulla solitudine ha parimenti sbloccato i meccanismi incrostati della ritrosia per riscoprire il bene della pratica manuale collettiva. Lavorare sulle parole ha poi messo “una buona parola” sul valore del dire, dopo cinquant’anni di matrimonio, o dopo solo qualche anno di storia di coppia.
Tommaso Evangelista
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