Futuro remoto. Giulia Napoleone
Nuova veste per la rubrica dedicata agli artisti del presente, la cui carriera merita un approfondimento dettagliato. Il segno per Giulia Napoleone è una costante, punto di partenza e approdo per un’osservazione ravvicinata di una realtà ipotetica. Un percorso intenso, il suo: se esiste una leggerezza pensata e inafferrabile, essa risiede nel segno meditato di questa protagonista di molte vicende culturali italiane. All’insegna di un’autopoiesi segnica incessante, lavora in solitaria nella sua Tuscia. Dopo una vita di viaggi e frequentazioni preziose.
MURO, 1963. UN PUNTO DI PARTENZA
Tutto è partito da Muro, un inchiostro del 1963. Giulia Napoleone (Pescara, 1936) ha ventisette anni, sguardo curioso, dovuto alle intense frequentazioni con diversi intellettuali attivi in area romana, da Marino Mazzacurati a Carlo Levi e Alberto Moravia, conosciuti grazie a Ennio Flaiano. Roma diviene ben presto – sin dagli anni del liceo artistico e poi della scuola libera del nudo all’Accademia di Belle Arti – l’epicentro della sua vita, ma fin da allora si evidenzia una propensione al viaggio e alla scoperta di geografie e culture altre, testimoniata dalle escursioni nei paesi scandinavi e in nord Africa. Qui ritrae con la fotografia immagini talmente rarefatte da apparire quasi astratte. Sono sintesi estrapolate da paesaggi brulli, con angolazioni che spingono a una lettura decontestualizzata. In quel Muro c’è proprio questo, che poi sarà una costante in tutta la sua ricerca: la riduzione in chiave segnico-essenziale di qualcosa di tangibile, che però si scompone a tal punto da non essere più identificabile. L’anno successivo è al Premio Michetti e Marcello Venturoli la invita al Premio San Fedele.
ROMA CAPITALE DEL SEGNO
È però il 1965 l’anno decisivo: inizia a frequentare la sala studio della Calcografia nazionale a Roma, aperta alla fruizione libera degli artisti su iniziativa dell’allora direttore, Maurizio Calvesi. Lo studio diventa più intenso, parallelamente il segno assume una importanza ulteriore, probabilmente grazie al costante dialogo con un altro maestro che diverrà presto suo sodale, Guido Strazza. Si studiano le lastre e le incisioni dei maestri del passato e del Novecento – ancora si emoziona, Giulia, quando pensa alle lastre di Morandi –, si approfondiscono le tecniche e i processi, si conoscono le potenzialità delle carte e si innescano dialoghi intensi e propositivi. C’è un legame viscerale e al contempo impalpabile tra le incisioni di Strazza e quelle di Napoleone. Sono anni di costante esperienza attorno ai temi, alle attitudini e alle peculiarità del segno inciso, come emerge in tutta la sua antologia critica, pensiamo ai testi di Carlo Bertelli e Lorenza Trucchi pubblicati sul catalogo della mostra alla Calcografia (Edizioni della Cometa, Roma 1997) e nei testi a lei dedicati da altri autori, in particolare Giuseppe Appella. Sabbia lunare, Germina I, Ricerca di luce, Cielo – giusto per citarne alcune – sono opere, concepite con tecniche diverse, che rivelano un legame analitico e insieme intenso e poetico con l’ambito naturale. Giulia Napoleone costruisce composizioni che di volta in volta si strutturano con rinnovata progettualità, con uno sguardo alle avanguardie astratte e in particolare alla lezione di Klee – da cui mutua quello sguardo aereo e sorpreso verso i fenomeni tangibili nei luoghi abitati dalla natura –, al quale si ispira l’attenzione costante alle rivelazioni di ciò che è naturale.
COERENZA E SPAZIO
Viaggia molto, visita musei e studi d’artista, ma Roma rimane, ancora una volta, il punto d’approdo. Siamo ormai nella seconda metà di un decennio tumultuoso e Napoleone sembra non sfiorare nemmeno quanto nella sua città si andava sviluppando in quella temperie. Segue una sua strada, che si lega anche ad alcune esperienze di radice astratta, ben interpretate in Italia da diversi artisti – da Kengiro Azuma ad Alina Kalcinska, chiaramente ognuno con la sua cifra. Ma quello della Napoleone è un segno estremamente preciso, che non genera geometrie, ma partiture smaglianti e insieme eteree. La Pop Art era già sbarcata in Italia, piazza del Popolo diviene lo snodo di un fermento che Mario Schifano e i suoi compagni di strada sanno esprimere bene. La lezione di Burri e Scialoja sembra digerita e superata. Dall’informale alla Pop all’Arte Povera, il passo è (apparentemente) breve. Accade tutto nell’arco di pochi anni, c’è energia e dialogo intenso. Arriveranno poi Pino Pascali, Jannis Kounellis e l’Attico di Fabio Sargentini diventa un laboratorio incontenibile di energia e sperimentazione. Ancora una volta Giulia Napoleone rimane fedele alla sua linea, non si lascia trascinare da ciò che avviene nella sua città, non sceglie altre vie. La sua rimane coerente a quella tracciata dall’astrazione storica: tracciare un segno è tracciare un simbolo di comunicazione. Le sue partiture scompongono lo spazio, lo rielaborano, ne avviano uno inedito, indefinibile. Lo stesso avviene nella pittura. I chiaro-scuri la definiscono, alcuni dettagli rinviano al mondo della particelle, soprattutto nelle incisioni, ma lo spazio di intervento della Napoleone va oltre, perché ha un afflato poetico, mai freddo o scientifico.
IL PRESENTE
“Amo la parola, lavoro molto sui versi”, il suo gesto segnico misurato, controllato, adesso va in scena in un piccolo paese della Tuscia, all’insegna delle costanti frequentazioni con la poesia e l’editoria più sofisticata, anche nel solco della sua antica amicizia con il compianto Vanni Scheiwiller. Il lavoro è quotidiano, concentrato su un’incessante ricerca delle vertebre intrinseche del segno, quello delle incisioni e degli inchiostri, su carte sempre più preziose. “Sono venuta in campagna, d’altronde il lavoro si svolge in solitudine”, ci congeda così. E in questa ammissione c’è tutto il suo lavoro, concentrato e autonomo, fuori dal sistema dell’arte, nonostante una storia intensa di mostre ed esperienze, pensiero e azioni.
Lorenzo Madaro
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