90 anni di astrazione. In dialogo con Achille Perilli
Festeggerà il suo 90esimo compleanno nel 2017 e intanto Giuseppe Appella sta mettendo a punto il catalogo generale della sua opera. La storia di una ricerca pittorica intransigente e rivoluzionaria nelle parole di Achille Perilli.
Nella casa di Achille Perilli (Roma, 1927), non lontano da Orvieto, in campagna, c’è tutto il suo mondo: lo studio, la natura rigogliosa, una biblioteca sofisticata, dedicata in particolar modo alle avanguardie, il deposito. Padre nobile dell’astrazione in Italia, con alle spalle interi decenni trascorsi nell’ambito di collettivi e iniziative di gruppo, nell’arte come nel teatro, oggi Perilli prosegue la sua indagine sulle forme dell’astrazione, in una casa-studio immersa nel verde. In attesa di un traguardo importante, i novant’anni e la redazione del catalogo generale della sua opera, che Giuseppe Appella, in collaborazione con l’Archivio Perilli, sta preparando.
Partiamo dal principio, dal 1947. In quell’anno lei è stato tra i fondatori del Gruppo Forma 1, nel cui manifesto c’era scritto “Ci interessa la forma del limone, non il limone”. Avete scardinato la pittura in questo Paese. Parliamo di quella memorabile stagione.
Nel 1947 avevo vent’anni e due amici, Piero Dorazio e Mino Guerrini. Il problema nasce con il fatto che io già dipingevo nel 1946, a diciannove anni. Però nel 1947 sono passato alla pittura astratta, che all’epoca a Roma non faceva nessuno.
Oltre a me c’erano Giulio Turcato, Pietro Consagra, Carla Accardi e Totò Sanfilippo; c’era anche Ugo Attardi, che poi ha cambiato modo di fare pittura. Frequentavamo, noi giovani, compreso Consagra che dormiva lì, lo studio di Guttuso.
Nella sua autobiografia, Vita mia, Pietro Consagra fa riferimento proprio all’opposizione di Guttuso rispetto alle istanze legate all’astrazione. E a una dialettica opposizione tra il vostro lavoro e le dinamiche interne al Partito Comunista, indirizzato verso una pittura figurativa.
Sì, il partito gli chiedeva quel tipo di pittura. Forma 1 è stato il primo gruppo astratto in Italia – e in Europa – nel dopoguerra. Ci siamo trovati in opposizione alla Scuola romana, che dominava nettamente. La scuola realista fu imposta dal Partito Comunista e quindi, in un certo senso, Guttuso divenne un nostro nemico. Con lui si è creata una frattura insanabile.
Sono stati anni di dialoghi accesi, viaggi comuni e scoperte delle avanguardie storiche. Cos’è accaduto dopo?
Intorno al 1953 ci siamo sciolti, ma è stata una stagione intensa. Eravamo impegnati anche sull’editoria, la prima rivista si chiamava Forma Uno, facemmo un solo numero. Nel 1950 stampai invece Forma Due, che fu una stravaganza. Coinvolsi Argan e altri nomi e dedicammo il numero alla pittura astratta.
Forma 1 e il vostro lavoro sull’astrazione che riscontri ebbero nel mondo culturale dell’epoca, in particolar modo in quello della critica d’arte?
Nessuno. L’unico forse che ci aveva in origine sostenuto era Corrado Maltese, che all’epoca era molto autorevole. All’inizio il clima verso la pittura astratta non era favorevole. Lionello Venturi, arrivato in Italia, non aveva alcuna idea di cosa fosse la pittura astratta, poi man mano si è avvicinato a noi e ha iniziato a comprendere ciò che stava accadendo. Il suo pittore favorito, per intenderci, era Chagall. Noi facemmo un viaggio a Parigi e fu una vera scoperta, Roma era un altro mondo.
Ma a Roma c’era Giacomo Balla.
Sì, ma Balla l’ho conosciuto dopo, era molto isolato all’epoca. Dorazio organizzò una sua mostra e mi chiese di andare a scegliere le opere futuriste. In casa le opere futuriste le avevano messe via. Calvesi viveva nello stesso palazzo di Balla, ma non l’aveva mai considerato.
Gli Anni Cinquanta per voi sono stati particolarmente intensi. Nel 1950 fondaste anche L’Age d’Or, una galleria all’epoca di tendenza.
Sì, era l’unica galleria che, oltre a fare le mostre – di Totò Sanfilippo, Carla Accardi e di altri artisti –, vendeva riviste d’avanguardia, che venivano anche dall’America. Dal 1953 al 1959 ho lavorato poi con la Civiltà delle macchine, la rivista diretta da Leonardo Sinisgalli. Fu un periodo importante, feci diverse inchieste in giro, si studiarono bene le avanguardie.
Nel 1963, dopo aver fatto il militare, torna a Roma. Negli Anni Sessanta in città avvengono diverse rivoluzioni nell’arte, c’è la Pop Art, arrivano poi artisti più giovani come Pascali e Kounellis. C’era un dialogo con voi della generazione precedente?
Con la Pop Art si è creata una frattura. Con la Biennale di Venezia del 1964, l’egemonia dell’arte dalla Francia si è spostata in America, con la vittoria di Rauschenberg. Fu un’abilissima mossa di Leo Castelli. I giovani che venivano fuori in quegli anni guardavano a New York: noi da ragazzi andavamo a Parigi, loro in America, pensiamo a Schifano, per esempio. In quegli anni ho avuto la fortuna di entrare in una grossa galleria come la Marlborough, che all’epoca era molto forte. Perciò è stato anche in tal senso un periodo intenso.
La sua ricerca sul fronte dell’astrazione è proseguita e si è man mano modificata, anche negli Anni Settanta e successivamente, mantenendo da un lato un forte carattere teorico, rigorosamente impostato su alcune questioni di metodo, dall’altro rivelando un legame sempre più viscerale con la pittura, intesa come linguaggio e punto di partenza del segno. Fino alle opere più recenti, ancor più sintetiche, ma in cui non manca il piacere del colore. Che rapporto ha avuto, invece, con la critica d’arte?
Quelli che sono amici sono amici, quelli che sono nemici sono nemici.
Parliamo degli amici: chi sono stati?
Nello Ponente, Lionello Venturi, Peppino Appella e altri, con cui ho condiviso un percorso.
L’anno prossimo compirà novant’anni, il suo studio è ancora molto attivo, vedo qui diverse opere concepite negli ultimissimi anni. Parliamo quindi delle opere più recenti.
Gliele descrivo in una maniera molto semplice: faccio una geometria mia. Normalmente i pittori astratti fanno la geometria, quella vera. Io no.
Che progetti ha invece per il futuro?
Di campà.
Lorenzo Madaro
Uno speciale ringraziamento a Giuseppe Appella, Lucia Latour e all’Archivio Perilli.
http://www.achilleperilli.com/
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