Fra estetica e politica. Intervista ad Alfredo Pirri
Cosentino di origine ma romano d’adozione, Alfredo Pirri ha aperto le porte del suo studio al pubblico, trasformandolo nella cornice della mostra inaugurata pochi giorni fa. Un progetto dalle tante sfumature, che darà vita a un laboratorio presso Nomas Foundation e a una retrospettiva al Macro Testaccio nel 2017. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con lui in questa intervista.
“Da quando abito al Mandrione è come se avessi un compasso nella testa, non faccio nulla che oltrepassi i venti minuti a piedi avendo come epicentro la casa”. Con queste parole inizia la mia chiacchierata telefonica con Alfredo Pirri (Cosenza, 1957), all’indomani dell’inaugurazione della mostra RWD – FWD, ospitata presso il suo studio-archivio in via dei Consoli 73, promossa da Nomas Foundation e curata da Ilaria Gianni.
Pirri vive al Mandrione dal 1999 e da poco più di un anno ha scelto per il suo studio una strada poco distante da casa. Conversando per venti minuti esatti, lo accompagno via etere dall’uscita della metro fino a casa, togliendomi molte curiosità sulla mostra appena inaugurata che, in realtà, è solo la prima tappa di un progetto più ampio. Si chiama I pesci non portano fucili e si svilupperà in un laboratorio presso Nomas Foundation e in una retrospettiva al Macro Testaccio nella primavera del 2017. Ma la prima cosa che mi preme sapere è cosa lo porti alla periferia sud est della capitale.
Alfredo, come mai hai scelto di vivere al Mandrione?
Ho iniziato a frequentare il Mandrione negli Anni Novanta e quando ho cercato una casa dove abitare l’ho fatto in questa zona perché era quella che amavo di più. È una strada storicamente molto caratterizzata, e poi anche perché francamente era, in termini utilitaristici, l’ultimo baluardo a Roma di un certo artigianato scomparso ormai dal centro della città. E di fatto via del Mandrione ha ancora un po’ queste caratteristiche.
C’era anche un motivo politico?
Un motivo politico specifico no, però non c’è dubbio che successivamente si sia andato a creare un ambiente politico abbastanza interessante. Qui, insieme ad altri, abbiamo dato vita per esempio a un comitato di quartiere molto attivo, tra i più attivi a Roma, che sta veramente cambiando il volto della città.
Come arrivi allo studio in via dei Consoli?
La scelta dello studio è stata conseguente alla scelta della casa, sempre per il compasso nella testa. Era un garage dove un signore restaurava vecchie automobili da quarant’anni, un antro buio dove non si vedeva nulla. La prima cosa che ho fatto, dopo averlo svuotato e lavato, è stato fare dei video insieme a un amico. Poi ho immaginato di infilarci dentro sostanzialmente una scatola, senza toccare le pareti. Ho costruito un ambiente dentro l’altro. Il nuovo ambiente è indipendente ed è realizzato con dei pannelli composti di cemento e legno, che normalmente vengono intonacati, ma che io ho lasciato a vista.
La mostra RWD – FWD è la prima tappa del progetto I pesci non portano fucili, titolo che hai scelto omaggiando l’opera The Divine Invasion di Philip K. Dick (1981) e immaginando una serie di “episodi riflessivi ed espositivi che si muovono in una città vista come mare aperto”. In questa mostra proponi una selezione di testimonianze e tracce del tuo percorso di ricerca, dagli Anni Ottanta a oggi (bozzetti, note, fotografie, lettere, schizzi, video, documenti inediti, progetti di opere e di incontri). Come mai hai deciso di partire dal tuo studio?
Più che di un progetto si tratta di un processo che produce a sua volta un progetto immaginativo, culturale, politico. Mi è sembrato giusto che si avviasse dentro il luogo che più mi appartiene in questo momento, cioè il mio nuovo studio che ha, oltretutto, anche le dimensioni e la proporzione adatte ad avviare questo genere di iniziativa. E poi perché è un luogo dove ho depositato ormai tanto lavoro e ho finalmente riunito un archivio. Oltretutto è un luogo che ho disegnato per intero e il cui disegno ho contribuito ad accrescere ancora con questa mostra. E anche, francamente, per offrire un’iniziativa artistica alla periferia della città.
Nella mostra mi hanno colpito alcuni tuoi video realizzati negli Anni Ottanta. Strada facendo hai abbandonato il video come forma di espressione artistica?
Sì, il motivo principale è perché il circuito del video non mi soddisfaceva, era altamente specialistico e riservato ai festival che, tra l’altro, erano pochi. Era un circuito ridotto e riservato ad un ambiente maggiormente vocato, diciamo, verso la televisione piuttosto che verso l’arte. E quindi non era proprio quello che io cercavo di fare. In più ho reso mano mano più evidente il mio interesse per la pittura che, peraltro, era anche alla base di quello che facevo con il video, trattandosi appunto di questioni e di cose che all’apparenza sono effetti speciali, ma di fatto erano una manipolazione manuale di immagini reali. Anche perché in quegli anni non c’erano gli strumenti, io facevo sperimentazione. Ancora oggi però è sempre vivo in me l’interesse verso la sperimentazione tecnica per il video.
Durante i tre mesi di apertura della mostra RWD – FWD ti trasferirai presso la sede di Nomas Foundation, che si trasformerà in un vero e proprio laboratorio in cui lavorerai alla creazione di un’opera di grandi dimensioni. Si può avere qualche anticipazione sull’opera a cui andrai a lavorare?
Sì e no. Non c’è nessun mistero, il problema vero è che, trattandosi di un processo, ho solo delle idee embrionali. Comunque si tratterà di un’opera composta da più elementi tutti provenienti da immagini che ho accumulato in questi anni, residuali rispetto alle opere. Sostanzialmente si tratta di immagini che ho registrato io direttamente, di tipo fotografico e mnemoniche, che hanno a che vedere con dei lavori che stavo realizzando. Questa serie di immagini (circa 150), modificandosi, andranno a comporre una sorta di grande memoria di cose fatte in passato. Però non in maniera esplicita, diretta, ma in maniera residuale. Spesso sono, per esempio, scorie vere e proprie, che però mi hanno suggerito uno strano rapporto tra quello che stavo facendo e la natura che mi circondava. Tra l’altro mi è capitato spesso, in questi anni, di lavorare all’aperto nella mia casa a via del Mandrione, dove si è creata una relazione più diretta con i fatti naturali.
L’opera verrà poi esposta al Macro Testaccio nell’ambito della retrospettiva a te dedicata, a cura di Benedetta Carpi de Resmini e Ludovico Pratesi, che inaugurerà nel 2017…
La mostra dovrebbe inaugurare il 2 aprile. Al Macro ci saranno più cose che si combineranno tra di loro. Da una parte un vero e proprio progetto di architettura in cui prevedo un cambiamento dello spazio a partire dalla caratteristica principale dei padiglioni. Trattandosi di una ex macelleria, c’è una sorta di boulevard centrale e delle strade laterali, che erano le strade della carne, intorno alle quali si sono organizzati gli spazi espositivi. Trovo che questa distribuzione dello spazio sia non sempre felice perché riduce la possibilità di guardare con intimità le cose. Aiuta quella caratteristica che io non apprezzo per niente, soprattutto negli ultimi anni, di consumare il rapporto con l’opera in un colpo d’occhio. Quindi quello che vorrei fare è riuscire a creare uno spazio più articolato che inverta questo punto di vista, creando appunto delle pareti. Per il resto si tratterà di selezionare e presentare al meglio le mie opere più o meno dal 1985 a oggi.
Questo ampio progetto/processo arriva in un momento particolare della tua vita di artista e di uomo?
Le decisioni che prendo per quanto riguarda il mio lavoro, l’arte, non hanno a che vedere con la mia vita privata. Veramente ritengo che tutto quello che faccia un artista sia pubblico. Quindi nessuna interpretazione personale o filologica speciale. La questione vera è che mi sono pervenute delle richieste di svolgere delle attività e di fare delle mostre in città e ho immaginato che andassero coordinate tra di loro in un immaginario unico, che consentisse di porre le questioni a livello artistico, senz’altro personale per quanto mi riguarda, ma anche a livello più complessivo, oserei dire quasi di tipo politico. Quindi ho immaginato che varie persone, strutture, addirittura istituzioni, potessero per la prima volta collaborare a favore di un progetto unitario.
Ti ho chiesto dell’uomo Pirri perché il finissage della mostra RWD – FWD nel tuo studio e la presentazione dell’opera che realizzerai e presenterei presso la Nomas Foundation saranno il 25 gennaio 2017, giorno del tuo 60esimo compleanno.
È una coincidenza, una cosa casuale. Non ho mai festeggiato il mio compleanno. Il 25 gennaio mi è stata proposta come data dalla Nomas per fare questa apertura e chiusura contemporanea e mi è sembrato talmente perfetto che non ho potuto dire di no. Sono ovviamente certe casualità che corrispondono forse anche a qualcosa di vero che accade.
Tre parole per definire la tua poetica.
Innanzitutto spero che la mia poetica sia poetica… e poi mi viene da abbinarle le altre due parole, tipiche di questo trittico, cioè estetica e politica.
Luce, pittura, spazio. C’è uno di questi elementi che per te è più ossessionante?
No, nel senso che io sono interessato solo alla relazione tra le cose, non a uno solo di questi elementi. Uno solo non avrebbe senso. Sono interessato a tutto ciò che si muove nell’interstizio delle cose e quindi alle relazioni tra gli elementi che hai citato. Credo che l’arte e l’architettura siano fatte di queste relazioni.
In un’intervista hai detto che hai un interesse politico per lo spazio. Che cosa vuol dire?
Sì, una volta era ancora più marcato. Per politico si deve intendere soprattutto pubblico. Prima di qualsiasi opinione politica si deve tornare a intendere la politica come cosa pubblica e anche i nostri rappresentanti o dirigenti politici dovrebbero iniziare a ritornare a fare una politica basata sulla cosa pubblica, piuttosto che su quella privata. Quindi, una volta impostate le cose in questo modo, si può tornare effettivamente e finalmente a ragionare di politica in maniera collettiva, e in questo senso lo spazio appartiene a tutti e il nostro compito di artisti è far in modo che se ne immaginino sempre di ulteriori.
Tu sei un artista riconosciuto a livello internazionale. Per quella che è la tua esperienza all’estero, è vero che c’è più attenzione nei confronti dell’arte e degli artisti rispetto all’Italia?
Credo che sia vero solo all’apparenza. È un problema soprattutto istituzionale. All’estero le istituzioni normalmente si interessano di più di arte e cultura, però questo non vuol dire che da noi non ci sia questa attenzione. Anzi, vuol dire semplicemente che da noi questo rapporto sarebbe talmente interiorizzato da fare quasi tutt’uno. Io, per esempio, sono convinto che lo Stato italiano abbia delle fondamenta prima artistiche e dopo politiche. Tant’è che la questione della rappresentanza politica si è conformata da noi intorno alla questione della rappresentazione artistica, perciò il tema della rappresentazione artistica è importante perché ripropone la questione della rappresentanza politica.
Tu hai insegnato e insegni in varie accademie e università. Ti piace insegnare?
A volte sì, a volte no. Dipende dai rapporti che si instaurano con gli studenti. L’insegnamento è uno stimolo umano innanzitutto, che talvolta si può tradurre in uno stimolo artistico perché, soprattutto da parte delle persone più giovani, ci sono delle intuizioni improvvise che nessuno avevo avuto prima. Quando accade questo insegnare diventa naturalmente molto bello.
Qual è stata l’emozione dominante rispetto all’inaugurazione della mostra?
È stato bello. Vedere che tanti eroi hanno attraversato una città ingovernabile [per lo sciopero dei mezzi, N.d.R.] è stato molto bello. A ognuno avrei dato una medaglia.
Lorenza Fruci
Roma // fino al 25 gennaio 2017
Alfredo Pirri – RWD–FWD
a cura di Ilaria Gianni
STUDIO ALFREDO PIRRI
Via dei Consoli 73
[email protected]
www.alfredopirri.com
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/57591/alfredo-pirri-rwd-fwd/
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