Ecco i tre artisti del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia
È notizia di pochi minuti fa: Cecilia Alemani, curatrice del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2017, ha fatto la sua scelta. In Laguna vedremo tre artisti: Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Qui trovate qualche valutazione a caldo, e un piccolo promemoria.
GLI ARTISTI DEL PADIGLIONE ITALIA
Finalmente! Sarà semplicistico, ma è con questo avverbio va salutato l’annuncio dato dal MiBACT – il ministero della Cultura, per dirla alla socialista maniera – in merito agli artisti che rappresenteranno l’Italia ala Biennale di Venezia 2017. Finalmente, perché è stata fatta una scelta, quella che ogni due anni fanno tutti i Paesi del mondo, o quasi: scelgono un curatore che sceglie un artista. E invece noi siamo stati per anni impastoiati in collettive più o meno ragionate che, alla fine, nulla restituivano ai visitatori.
Ora invece gli artisti sono tre – e ci sta, considerato lo spazio enorme del nostro padiglione in Laguna: Cecilia Alemani, la curatrice incaricata dal ministero, ha scelto Giorgio Andreotta Calò (già ad aprile vi dicevamo che sarebbe stato invitato…, non è affatto una sorpresa) Roberto Cuoghi (zero sorprese anche qui) e Adelita Husni-Bey (qui una scelta un po’ più inaspettata e anche per questo molto interessante, per un’artista che sta facendo un percorso peculiare, serio e rigoroso negli ultimi anni).
Ci va bene? Non ci va bene? Sì, no, perché… La discussione è giusto che inizi – d’altronde, siamo tutti allenatori di calcio, direttori di biennali, esperti di diritto costituzionale, di immunologia, di presidenziali americane e via dicendo – ma almeno abbiamo qualcosa su cui discutere. Una scelta chiara e definita, e tre “obiettivi” immediatamente riconoscibili e valutabili.
LE RAGIONI DELLA SCELTA
I dettagli, recita il comunicato stampa, saranno forniti nei prossimi mesi. Ma intanto possiamo evidenziare alcuni dati, che la stessa Alemani ha sottolineato nella dichiarazione che accompagna la pubblicizzazione degli artisti invitati. In primis la scelta – ancora: criticabile, va da sé, ma una scelta – di selezionare tre artisti nati tra la metà degli Anni Settanta e la metà del decennio successivo; tre artisti che “sono emersi sulla scena artistica nazionale e internazionale nello scorcio di questo nuovo secolo”. Poi il loro carattere che potremmo definire glocal, una parola stridente ma che ben sintetizza il pensiero sotteso alla scelta della curatrice, quando dichiara che “le loro opere e i loro linguaggi sono globali ma intimamente legati alla cultura del nostro Paese”. E non è un caso che due su tre risiedano all’estero.
E naturalmente c’è la questione del “numero ridotto di artisti rispetto al passato”, opzione adottata “per allineare il Padiglione Italia agli altri padiglioni nazionali presenti in Biennale” (già immaginiamo l’ermeneutica spicciola su quell’infelice “allineare”: “Ma come”, si dirà, “l’Italia a casa sua si deve uniformare a quello che fanno gli altri?!”. La risposta è semplice: “Sì, perché se quasi tutti fanno così, e da anni, un motivo ci sarà…”).
Un lapalissiano corollario alla tesi del numero ridotto di artisti invitati è che, ribadisce Alemani, “il mio progetto non cerca di rappresentare uno sguardo completo su tutta l’arte italiana: piuttosto vuole guardare in profondità al lavoro di tre artisti – voci originali che si sono distinte e imposte negli ultimi anni – dando loro spazio, tempo e risorse per presentare un grande progetto ambizioso che costituisca un’occasione imperdibile nella loro carriera e che possa presentare al pubblico un’opportunità di immergersi nella mente e nel mondo degli artisti”. Che poi, suvvia, anche le collettive sono frutto di una scelta, e non rappresentano l’arte italiana tutta. Sono semplicemente foglie di fico. O interi alberi, per restare in metafora e pensando al Padiglione che s’inventò Sgarbi: dove erano invitati tutti, quindi nessuno, nella fastosa celebrazione della morte della critica – che vuol dire scelta, e torniamo all’inizio.
CHI SONO GLI ARTISTI SELEZIONATI
Una solida formazione nel campo della sociologia ha consentito ad Adelita Husni-Bey – italo-libica classe 1985 e residente a New York – di affrontare senza remore alcuni capitoli della storia recente, traslitterandoli in interventi artistici che richiedono un buon coinvolgimento intellettivo e percettivo da parte del pubblico. “Da sempre interessata a tematiche quali l’utopia e l’educazione, gli esperimenti sociali e la pedagogia anarchica, Adelita Husni-Bey ha spesso coinvolto nella propria pratica artistica realtà impegnate nel sociale, avviando con loro progetti di collaborazione declinati in diversi media (seppur con una predilezione per il linguaggio del video”, ha scritto di lei Vincenzo de Bellis sul catalogo della mostra Ennesima, tenutasi lo scorso anno alla Triennale di Milano (tutti e tre gli artisti invitati da Alemani erano presenti alla mostra meneghina e lo stesso de Bellis era nella shortlist per curare il Padiglione). Ne è un esempio il progetto A Holiday from Rules – Postcards from the Desert Island (2010-11), in collaborazione con l’École Vitruve di Parigi, un workshop di tre settimane in cui un gruppo di bambini dai 7 ai 10 anni, iscritti alla scuola parigina, invitati a costruire un mondo possibile, hanno innescato una serie di domande capaci di destabilizzare gli adulti. “Che siano la storia del nostro più recente passato, o i meccanismi operanti nelle società capitaliste, o i tentativi dell’umanità, delle persone, di creare modelli alternativi, l’artista rivendica la possibilità di essere parte attiva di questi processi, mettendoli scandalosamente in discussione o contribuendo a generarli, istigando immaginari sociali nuovi, micro-utopie”, chiosano gli autori di Terrazza, ovvero Laura Barreca, Luca Lo Pinto, Andrea Lissoni e Costanza Paissan.
La dialettica innescata fra spazio e gesto artistico è invece la componente essenziale della pratica di Giorgio Andreotta Calò, veneziano nato nel 1979 e residente ad Amsterdam. A partire dalla scultura – strumento cardine su cui si innesta il suo fare creativo – le tracce lasciate dai suoi interventi modificano lo spazio che li ospita e, al tempo stesso, traggono da esso l’energia necessaria per alludere ad altro, a una dimensione interiore e spesso melanconica: “Il suo è un agire in solitaria che, dilatato nel tempo e nello spazio di luoghi sempre diversi, gli consente di toccare in profondità la dimensione introspettiva, in special modo melanconia e solitudine”, ha scritto di lui Marinella Paderni. Senza dimenticare gli esiti performativi e fotografici della sua opera, la scultura resta alla base del dialogo messo in atto con il contesto fisico e il tempo: “Il gesto scultoreo, per Andreotta Calò, è la conclusione di un processo di trasformazione che ha origine dall’azione della natura: la cristallizzazione dello scorrere del tempo e dell’evoluzione dello spazio”, scrive dunque Vincenzo de Bellis.
È una poetica metamorfica per antonomasia quella messa in campo da Roberto Cuoghi, modenese classe 1973 (il più “vecchio” del trio che vedremo in Laguna). Fin dalla scelta, agli esordi della sua carriera, di far assumere al proprio corpo le sembianze del padre, in una dialettica sottile tra identità ed estetica, l’artista ha dato forma a una ricerca che rintraccia nei nodi tematici della memoria e del tempo il suo leitmotiv. Il medesimo approccio liquido e sperimentale si riflette anche nella scelta delle tecniche e dei linguaggi usati: scultura, installazione, suono, disegno e fotografia assumono contorni sempre nuovi, capaci di dare sostanza a universi in cui ciò che è reale sfuma senza sosta nel regno dell’immaginazione, e viceversa. Il sé diventa altro-da-sé in un andirivieni visivo e concettuale, dove il qui e ora dei materiali selezionati da Cuoghi cede il passo all’evocazione di mondi fisicamente e temporalmente distanti. Šuillakku, la personale allestita nel 2008 al Castello di Rivoli, con la curatela di Marcella Beccaria, rappresenta una summa del mutevole approccio di Cuoghi al momento creativo. Costruita attorno al tramonto della civiltà assira, la mostra esplicita lo sforzo di identificazione compiuto ancora una volta dall’artista nei confronti del suo soggetto. Il risultato è un’immersione sonora e sensoriale in un mondo passato che trova, nell’immaginario di Cuoghi, una legittimità inedita, fatta di superstizioni, demoni e vita vissuta.
POST SCRIPTUM
Il breve comunicato prevede anche un’entusiastica dichiarazione di Federica Galloni, Direttore Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane del MiBACT e Commissario del Padiglione Italia. Dove si dice, in buona sostanza, che questa volta s’è fatto prima del solito, “oltre un anno prima rispetto all’inaugurazione della Biennale, al fine di consentire a curatore e artisti di lavorare con tempi non serrati”. Bene, anzi: finalmente!
Ma si può fare meglio, molto meglio: rendendo ancora più trasparente la procedura di selezione del curatore, ancora più spediti i tempi, ancora più consistente l’apporto del ministero. Aspettiamo fiduciosi, e lo diciamo senza ironia.
Marco Enrico Giacomelli e Arianna Testino
http://www.labiennale.org/it/arte/index.html
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