Dall’Archivio Viafarini. Intervista con Filippo Marzocchi
Nuovo appuntamento con il ciclo di conversazioni tra Progetto /77 e alcuni degli artisti incontrati nell’ambito del progetto "Portfolio Review Re-enactment", in collaborazione con Viafarini. Questa volta il protagonista è Filippo Marzocchi, che riflette sul ruolo della performance nel proprio lavoro a partire dall’opera “Fabric”.
Dopo Mati Jhurry, Isabella Benshimol, Giada Carnevale, Marina Cavadini, Aldo Lurgo, Daniele Pulze, Mattia Agnelli, Roberto Casti e Virginia Garra, tocca a Filippo Marzocchi (Forlì, 1989) parlare della propria poetica. Fra performance, suono e rapporto con il pubblico.
Buona parte della tua produzione può essere definita “performativa”, ma hai precisato più volte che non ti interessa la teatralità spesso insita nella performance. Puoi approfondire questo aspetto?
Forse dovrei parlare prima del mio rapporto con la performance per arrivare a questo punto. La performance è entrata a far parte della mia pratica artistica abbastanza recentemente e per diverse ragioni. Credo che la prima occasione in cui ho sperimentato l’arte come performer sia stata durante il periodo in cui ho vissuto a Istanbul. Appena arrivato in città sentivo una forte esigenza di produrre lavori, ma non avevo ancora né una casa né uno studio. Presi allora in considerazione la performance grazie alla sua rapidità e immediatezza di esecuzione, almeno potenziale.
Oltre a questo, una motivazione meno pratica e che probabilmente ha stimolato maggiormente il mio interesse è il carattere effimero della performance.
In quel periodo a Istanbul, e anche successivamente, ero convinto del fatto che la mia ricerca artistica dovesse essere completamente “pura”.
Che cosa intendi per “pura”?
Con “pura” intendevo un’arte che fosse impermanente, disinteressata e non focalizzata sull’ego. All’epoca ho avuto una sorta di lite con l’oggetto in quanto avvertivo un’espressione di individualità e staticità molto forte in esso. Sentivo una resistenza nel fissare concetti stabili, cercavo invece il moto e la trasformazione materica in coerenza alla mutabilità perenne della realtà. Ad esempio nel 2014 ho creato delle “pitture” di carta fotografica non fissata, le quali, esposte continuamente alla luce, progressivamente scomparivano fino a cancellarsi. Dal mio punto di vista erano delle rappresentazioni di vita, mostravo il processo di decadimento di un’opera per animare gli oggetti stessi e sottilmente rendere visibile il mutamento della materia.
Ciò che mi interessava attraverso queste produzioni era ed è tuttora il tempo presente, la mia ricerca artistica affonda le radici nell’osservazione e comprensione della realtà, della percezione presente dell’uomo e della possibilità di esperire dimensioni alterate in stati coscienti.
E poi come si è evoluto questo approccio?
Su queste premesse attraverso la performance ho cercato un contatto concreto con l’osservatore, agendo in contesti pubblici o estemporanei, dove non esiste distanza tra palco e pubblico. Anche in un secondo momento, in contesti istituzionali, ho cercato di limitare i concetti di spettacolo e pubblico lavorando sulla capacità dell’opera di essere un dispositivo, in grado di agire sull’essere presente dell’osservatore senza riportare immagini passate o future.
Ecco, dove la teatralità svanisce, preferisco usare l’arte per insinuarmi nel campo del reale e comunicare dall’interno con chi la vive e osserva, eliminando il patto finzionale o, al contrario, giocando con esso.
Come ti relazioni con il pubblico?
Credo che sia possibile creare delle forti tensioni nella percezione dello “spettatore” se si è coscienti del fatto che chi sta guardando decide di prendere parte a ciò che vede o, all’opposto, di restarne fuori, ma comunque rispettando delle convenzioni, come applaudire alla fine di un’opera sebbene non sia piaciuta o non sia stata capita.
Significa lavorare su un piano reale e non spettacolare, cercando di limitare i caratteri più “facili”, come possono essere ad esempio gli effetti speciali o il sangue, a favore di una dimensione più vera anche se meno attrattiva.
Alcuni esempi molto importanti per me sono stati Michael Haneke, Robert Bresson e Barnett Newman, persone che hanno saputo interpretare la rappresentazione in maniera non convenzionale e cosciente.
In Fabric i performer sono liberi di interagire con lo spazio senza ricevere da te istruzioni precise. La tua posizione al mixer ti permette però di avere controllo sui suoni che i performer raccolgono. Come definiresti questo rapporto tra di voi?
Fabric è stato un punto di partenza e allo stesso tempo un lavoro di passaggio nella mia ricerca. Infatti è l’ultima performance dove ho partecipato all’azione attivamente e la prima dove ho utilizzato il mezzo performativo come strumento di ricerca sonora.
L’idea consiste nell’eseguire un live suonando con la materia sonora proveniente dallo spazio in tempo reale, attraverso l’intervento di 8 performer dotati di microfoni.
Inizialmente non avevo dato così importanza alla relazione tra i performer e me, mi sono reso conto poco a poco, come sempre succede durante il lavoro, delle dinamiche che si erano create.
Inoltre è stato caratterizzante il fatto di aver sviluppato il progetto all’interno della mostra Use/User/Used alla Zabludowicz Collection a Londra. In una chiacchierata con uno dei curatori, Giovanni Rendina, venne fuori questa mia idea e di come si sarebbe potuta adattare alla mostra, la quale era incentrata sul confronto tra le dinamiche di esaurimento dovute all’era digitale e alla società consumistica.
Compresi che la performance si strutturava molto sull’idea di comunità e la mia presenza al suo interno, nonostante non fosse la mia intenzione iniziale.
In cosa consiste la performance?
In Fabric ho chiesto a otto performer di raccogliere dati sonori nello spazio, ciò che mi interessava era la loro capacità decisionale e le loro singole percezioni dello spazio e del tempo. Tutto questo veniva trasformato in materiale sonoro dai microfoni e confluiva al desk, dove io in tempo reale avevo libertà di processare tutto in una nuova forma, restituita poi al pubblico. Il mio rapporto con i performer ha quindi due punti di vista: da un lato c’è il fatto di sottoporsi a un materiale totalmente incontrollato per creare nuove forme, dall’altro c’è la posizione autoriale e autoritaria che ho assunto durante l’azione, cioè il fatto che si fosse creata una micro comunità con una serie di interdipendenze, dove apparentemente nessuno aveva totale controllo sull’altro, ma dove probabilmente l’ultima parola l’avevo io grazie alle regolazioni di ogni singolo canale del mixer. È stata una prova interessante, mi ha fatto rendere conto di quanto ognuno di noi ha la capacità di controllarsi e controllare le relazioni con gli altri, prendere decisioni seguendo criteri sempre relativi e personali.
Ora forse non mi metterei più in una situazione del genere. Non mi piace dover controllare gli altri, ma, realisticamente, è una cosa che ci si trova sempre a fare.
Questo lavoro traduce un luogo in suono. Cosa ti interessa maggiormente di tale processo e che importanza ha per te diffondere il risultato nel luogo stesso, in tempo reale?
In Fabric non si parla solo del luogo, ma si parla di otto, anzi nove persone che vivono e percepiscono quel luogo. È una traduzione che si struttura attraverso lo spazio e il tempo presente, in questo caso più di uno.
Il lavoro è sulla rappresentazione di questa percezione sensoriale, su come l’uomo viva e su che cosa sia la vita. La considero più che una domanda una semplice osservazione, guardare e mostrare agli altri quello che si sta guardando, donando importanza a quel luogo e a quell’istante. Dato che siamo immersi in esso e lo stiamo esperendo attraverso il corpo e la mente, è utile concentrarsi e percepire, sentire che si è lì.
In Fabric i performer hanno lavorato sulla caratteristica sonora dello spazio, un’ex chiesa metodista. Ho chiesto loro di raccogliere dati sonori come uno scanning, ero interessato a osservare lo spazio come con una lente, cogliendo ogni situazione e particolare. È stato quasi un lavoro di archivio con cui intendevo destrutturare la chiesa attraverso degli operatori e, in un secondo momento, ridare vita a tutta quella materia, lavorando il suono in un nuovo flusso.
Avevi già lavorato in maniera simile?
In altri contesti ho utilizzato il suono in maniera simile senza utilizzare performer e in altri casi, invece, ho utilizzato il video. In tutti questi lavori, a posteriori, si ritrova un’attenzione agli ambienti, che sia spazio artistico, architettonico o naturale. Credo che ciò si debba sia al fascino che i luoghi esercitano su di me sia alla pratica di lavorare sull’ambiente nel quale mi trovo.
Questo tipo di elaborazione l’ho applicata in svariati contesti, in tutti i casi ho lavorato su delle forme di scan o archivio, il quale però non è mai stato lasciato alla dimensione di spazio di memoria, venendo invece utilizzato come materia viva capace di osservare, riscoprire e rigenerare uno spazio. Fino a ora la diffusione non ha avuto una coerenza vera e propria, piuttosto, forse, è stata una ricerca. Nei vari lavori il risultato prodotto ha trovato una differente diffusione a seconda delle dinamiche, a volte è stato trasmesso all’aperto, a volte all’interno dello stesso ambiente, altre invece utilizzando piattaforme internet o radio.
Probabilmente fino a oggi non ho avvertito la necessità di diffondere in un solo modo il suono prodotto e forse non avrà mai una importanza fondamentale.
/77
www.viafarini.org
http://progetto77.tumblr.com/
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