Metodo Gibellina. Da Burri a Sten Lex, storia di un’utopia a cielo aperto
Quarantanove anni esatti. Nel gennaio del 1968 il terremoto del Belice, in Sicilia, lasciava dietro di sé morti, feriti, macerie. Nel ricordo di quei giorni, ripercorriamo la vicenda di Gibellina, che rinacque in un nuovo sito, grazie anche all’arte e all’architettura contemporanee. Fra intuizioni geniali e critiche sparse. Ed ecco che oggi, a sorpresa, spunta una nuova opera d’arte pubblica…
Nella notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1968 il destino si abbatteva, implacabile, su un angolo di Sicilia. Il terremoto della Valle del Belice colpì un’area vasta compresa fra Trapani e Palermo, seminando la disperazione. A centinaia morirono, mentre la terra pareva implodere e interi centri abitati venivano giù, come accrocchi d’argilla.
Il silenzio che seguì fu spettrale: una coltre si posò sui cieli freddi di uno sciame di paesi, in molti casi rasi al suolo. Tra questi, Gibellina. Un borgo di montagna, che oggi non esiste più.
A custodirne i relitti è una delle più grandi opere di Land Art mai realizzate al mondo. Il Cretto di Alberto Burri – edificato a partire dagli Anni Ottanta – è una tomba di cemento, distesa sulle rovine. Ottomila metri quadrati, per un labirinto percorribile, che dall’alto è un foglio bianco srotolato sul ricordo, a sigillare i morti, le case, i giorni perduti: l’immenso craquelé è un monumento funebre in forma di paesaggio, di teatro, di scultura. Un sudario sulla terra nera.
A pochi chilometri da lì sorge Gibellina Nuova, dove si spostarono i superstiti e la vita ricominciò. Anche in questo caso l’arte contemporanea fu stella polare. E anche qui – come per il Cretto – artefice carismatico e visionario fu l’allora sindaco Ludovico Corrao, avvocato, ex DC passato al PCI, ex Deputato e poi Senatore della Repubblica. Grazie a lui Gibellina rinacque, nel segno di un’utopia poetica dal sapore rinascimentale, divenendo palcoscenico di una serie di interventi urbani, per l’epoca rivoluzionari. Nel cuore di una provincia del Sud, all’ombra della devastazione, in un tempo di arretratezza e speculazioni mafiose, si radicava una specie di avanguardia culturale. Artisti e architetti, supportati dagli artigiani del paese, da imprese locali e cittadini, disegnarono il volto umano di questa città-esperimento, col sostegno di intellettuali come Sciascia, Guttuso, Zavoli, Dolci.
E furono chiese, edifici, piazze, monumenti, sculture, per una sfilza di nomi eccellenti: Quaroni, Uncini, Venezia, Consagra, Cascella, Mendini, Purini, Pomodoro, Schifano, Paladino, Simeti… Negli anni il Museo d’Arte Contemporanea si arricchì di circa duemila opere, molte posizionate nello spazio urbano, in qualche caso in occasione delle Orestiadi.
I fondi, negati dallo Stato – che non volle destinarli all’arte –, Corrao li ottenne con manifestazioni, battaglie parlamentari e mille escamotage (come quando travestì i lavori per il Cretto da “opere di sistemazione idrogeologica”), contando soprattutto sulla generosità di artisti e residenti.
FRA UTOPIA E FALLIMENTO
Non esiste utopia, però, che non proceda con l’idea di fallimento. Che non sperimenti il supplizio della disfatta, del disincanto. Della resa. E allora, Gibellina: il grande sogno mediterraneo, ribaltato nell’illusione di un condottiero solitario? Anche. E parliamo di quell’utopia che Francesco Merlo, all’indomani della morte di Corrao, ebbe a definire su La Repubblica un “disastro spettrale”. Durissimo era stato il giornalista dell’Espresso Mario La Ferla, nel suo libro-inchiesta Te la do io Brasilia (2004): “È sotto gli occhi di tutti che queste opere, sul cui valore ovviamente non si discute, siano adesso in condizioni di abbandono, e Gibellina appaia come una città fantasma dove gli abitanti dichiarano di non trovarsi a proprio agio. Si è preferita l’arte ai servizi di pubblica utilità”. La nuova Brasilia, progettata da audaci architetti, che Corrao completò con la sua impresa artistica monumentale, nasceva già come un luogo alieno, una moderna polis pianeggiante, senza un centro e senza cuore, non modellata sul profilo della piccola comunità di pastori e contadini.
E fu accesissimo il dibattito intorno al museo diffuso gibellinese (ma anche intorno a tutte le ricostruzioni del Belice, tra sperperi, cantieri infiniti, abbandoni). Quindi, territorio al servizio dell’arte, anziché il contrario? Arte che conquista, invade, modifica, impone, dimenticandosi di mettersi in ascolto? Arte e architettura autoreferenziali, calate dall’alto e poi lasciate lì, come ornamenti in avaria? Un tema immenso.
E ancora, il problema della conservazione, l’incapacità amministrativa, l’indifferenza della politica, i cedimenti, i crolli (come per la Chiesa postmoderna di Quaroni, la cui copertura crollò nel 1994), la consunzione, l’incuria, le opacità, i fondi esigui e quelli dissipati, la città che si spopola, il turismo che non arriva, l’economia che langue, i musei al collasso e i progetti che non fioriscono più, attorno alle opere e come loro estensione. Per un luogo che non ha mai conquistato una compiutezza ideale, uno sviluppo sociale virtuoso. Vita e morte di un’utopia: Gibellina fu ed è anche questo.
Oggi, a decenni di distanza dall’inizio di quell’avventura, arriva un nuovo esperimento. Magari un segnale. E l’approccio, la sensibilità, sono quelli del presente. Parliamo di Street Art e di un nome tra i più accreditati sulla scena nazionale e internazionale. Sten Lex regalano alla città un’altra opera a cielo aperto. E il risultato è notevole.
L’ASSESSORE CI RIPROVA. CANTIERE STREET ART
A ideare l’operazione è il giovane assessore alla cultura Giuseppe Zummo, che ci spiega: “Elemento d’ispirazione sono state le contaminazioni artistiche che Gibellina ha avuto negli anni, e di conseguenza lo sviluppo di un metodo. La ricostruzione della città è un caso unico al mondo. Sono passati trent’anni e i concetti di arte pubblica, sostenibilità, estetica, conservazione, si sono modificati. Oggi il coinvolgimento dei cittadini diventa fondamentale. Il contatto con gli artisti è più diretto. E i linguaggi si fanno più immediati, economicamente sostenibili. Come per la Street Art”.
Un metodo. È da qui che si riparte, rimettendo in campo un sogno e provando ad accordarlo alle pratiche del tempo.
“‘DeviAzioni – Gibellina Urban Art’ è un progetto degli Assessorati alle Attività Culturali e all’Urbanistica, dedicato alle nuove modalità di fare arte sul territorio”. Iniziativa appena avviata, con questo primissimo intervento. E dunque, si continua a credere – qui e là, per merito di singoli amministratori, artisti o mecenati, oltre qualunque idea di sistema, come da tradizione sicula – alla possibilità di spostare qualcosa, di produrre contenuti e contenitori, di generare senso.
“I ragionamenti alla base del progetto”, continua Zummo, “sono frutto dei confronti che ho spesso con amici artisti, curatori, musicisti. Cerchiamo di stimolare la comunità con nuovi input. E devo dire che in questo caso ci siamo riusciti, ma solo dopo grandi confronti con le istituzioni”. E ci si aspetterebbe adesso un prosieguo adeguato, con una regia consapevole, standard di qualità elevati e logiche colte, illuminate. Non lasciando nulla al caso, vigilando, pianificando. Investendo risorse adeguate e coinvolgendo curatori, teorici, intellettuali. Fra azione sistemica e riflessione sociale. Non oggi, non ancora. DeviAzioni è un progetto appena avviato e questo primo intervento, per quanto riuscito, appare come un fiore solitario, sbocciato nello spazio metafisico di una città irrisolta, sospesa.
“Lavorare con Sten Lex? Sono state tre settimane fantastiche”, prosegue l’assessore. “Da subito si sono impegnati nello studio del territorio e delle sue opere d’arte, per poi dedicarsi al dialogo con la gente e alla conoscenza della storia del paese. Durante i lavori qualche gibellinese ha anche dato una mano, alcune attività commerciali hanno donato le materie prime. Il “Metodo Gibellina” può ri-diventare un generatore di esperienze”.
VARCO. L’ASTRAZIONE DI STEN LEX
A fargli eco gli artisti, che nel racconto si soffermano sul dato della relazione. Prima col luogo, poi con le persone. Nulla di strutturale, non un esperimento d’arte sociale, arte dal basso, arte partecipata. Ma il contatto c’è stato, spontaneo. “Non è facile inserire nuovi artisti in un contesto che ormai appartiene alla storia dell’arte”, spiegano. “I passanti che ci vedevano a lavoro erano incuriositi, alcuni (pochi) non approvavano. Quanto a noi, siamo rimasti stupiti della grande risorsa culturale concentrata in un solo luogo. È sicuramente uno degli interventi a cui siamo più affezionati, soprattutto per il contesto surreale”.
Ed è proprio l’immenso patrimonio artistico di Gibellina ad aver funzionato da spunto. Felicemente. “Ci ispiriamo principalmente a Dorazio e come tecnica a Rotella, ma senza dubbio Consagra è l’artista di Gibellina a cui più assomigliamo. Le crepe di Burri ci hanno sicuramente ispirato molto, così come i segni presenti nelle ceramiche di Carla Accardi”. Mettersi in ascolto si deve, si può. E se coloro che ricostruirono la città dovettero confrontarsi col volume del vuoto e con l’eco della catastrofe, qui è la storia recente a diventare orizzonte, ossatura.
Varco, questo il titolo del muro, “fa parte di una serie di lavori astratti realizzati in Sicilia. Potrebbe ricordare una mappa geografica. I confini dettati nel disegno vengono aperti da una breccia che porta al Teatro di Consagra”. La tecnica è quella che li ha resi celebri, lo Stencil Poster: “Incolliamo a parete dei manifesti e ritagliamo la carta direttamente sul muro. La matrice infine viene distrutta e pone fine alla riproducibilità dell’opera. A volte lasciamo tracce della matrice di carta sul muro che via via, cadendo, con l’aiuto degli agenti atmosferici, rivela l’opera”. A proposito di movimento, di evoluzione.
Un lavoro raffinato. Di quelli capaci d’imporsi e insieme di respirare coi luoghi, di divenirne parte, di non soverchiare. Linee, tasselli, nel fitto incastro del bianco e del nero, diventano tessitura geometrica. Fra pittura, matematica, decorazione, architettura. Sintesi formale eccellente e una specie di attitudine alla risonanza, alla vibrazione, all’espansione. Una partitura grafica: quasi si sente il rumore.
Al centro, il varco. Un ponte tra passato e presente, innanzitutto; un’apertura che spinge l’occhio fino al teatro incompiuto, rivestito da impalcature: il murale è cresciuto intorno a una linea di fuga, a un’esperienza prospettica, ma anche a una metafora forte. L’edificio di Consagra, mai terminato, incarna l’assurda tangenza tra la spinta utopica e la sua fine.
“Quello che oggi vedete”, conclude Zummo, “è frutto della rinascita di un popolo, che ha cercato nell’arte e nella cultura il suo riscatto. Credo sia molto difficile ripetere ciò che è stato capace di fare un uomo lungimirante come Ludovico Corrao, ma non è detto che non si possa fare altrettanto bene, in maniera diversa. I tempi cambiano, bisogna essere duttili ma senza perdere di vista l’obbiettivo. Gibellina è un’utopia, è vero. Ma è un’utopia in movimento. Con tutte le metamorfosi del caso”.
Forse la lezione più radicale, lasciata in eredità dal Senatore. Il terremoto fu morte apparente. Così diceva Corrao, col suo appeal da dandy cortese, severo. Fu una ferita inferta dalla natura, ricucita nel segno della volontà, della bellezza, del cambiamento. La sfida dell’arte, laggiù, fu nell’idea di resistenza: smentire la morte, edificando nuove forme in mezzo alla polvere. E nel rapporto ossessivo che la Sicilia intrattiene col principio luttuoso della stasi e della decadenza, quest’immagine resta un appiglio. Un varco, per darsi altro spazio, per produrre altro tempo, per non fare dell’utopia un alibi, una trappola, una maniera.
Helga Marsala
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