Ai Weiwei e l’occasione mancata
Palazzo Strozzi, Firenze – fino al 22 gennaio 2017. Secondo appuntamento con le riflessioni degli studenti del corso di Storia della fotografia tenuto da Tiziana Serena presso l’Università degli Studi di Firenze (Dipartimento SAGAS). In collaborazione con la Fondazione Palazzo Strozzi gli allievi hanno visitato la mostra “Ai Weiwei. Libero”, approfondendone i contenuti con il direttore della Fondazione Arturo Galansino.
A circa due mesi dall’inaugurazione prosegue con successo la mostra fiorentina che, per la prima volta, dedica interamente all’artista contemporaneo cinese Ai Weiwei (Pechino, 1957) tutti gli spazi di Palazzo Strozzi – comprendenti la splendida facciata rinascimentale, il primo piano del palazzo, gli ambienti sotterranei della Strozzina e il cortile – per un totale di 3000 metri quadrati allestiti con circa 60 opere, molte delle quali di notevoli dimensioni. Per l’occasione il palazzo si è addirittura spogliato delle strutture interne, normalmente poste a protezione delle originali pareti rinascimentali, facendo emergere, oltre alle finestre, due caminetti antichi. La prima grande retrospettiva italiana dedicata al famoso artista dissidente coincide dunque col più grande progetto mai realizzato finora dalla Fondazione. L’intento dichiarato dal direttore e curatore della mostra Arturo Galansino di creare un ponte al fine di popolarizzare l’arte contemporanea a Firenze sembra aver fatto decisamente centro perché, in un mare di opinioni e polemiche che hanno preceduto l’inaugurazione della mostra, quello che può dirsi certo, adesso, è che la mostra di Ai Weiwei piace eccome. E piace anche, e forse soprattutto, agli estranei del settore e ai “non addetti ai lavori”, quella fetta di pubblico abituata a trattare l’arte contemporanea con una certa diffidenza e un velo di scetticismo; e in questo risiede senza dubbio il principale merito della mostra. Dopo una serie di recenti tentativi in città che hanno proposto un tipo di arte contemporanea perennemente decontestualizzata, priva di adeguati apparati didattici e completamente incapace di offrire strumenti per un’esaustiva comprensione (generando soltanto futili provocazioni e mai nessun reale avvicinamento), finalmente le opere d’arte dell’(adesso) libero artista cinese fanno breccia nel cuore dei fiorentini. La moltitudine di visitatori che affolla Palazzo Strozzi (si è parlato di ritmi notevoli, che contano circa mille visitatori al giorno) può apprezzare l’obiettiva bellezza di opere come Blossom – meraviglioso tappeto di fiori di porcellana bianca che omaggia la più alta tradizione di artigianato cinese e richiama la breve stagione di libertà culturale del 1965; può ammirare l’incontestabile e ineccepibile pulizia formale di manufatti come Grapes – struttura perfetta che prende vita dall’unione di antichi sgabelli di legno – e Crystal Cube – affascinante cubo di cristallo che si impreziosisce a ogni sua scheggiatura.
NON SOLO ESTETICA
Oltre dunque all’indubbio aspetto estetico (che stona unicamente nella scelta della carta da parati in cui solo pochi scorgono l’immancabile volto di Ai Weiwei, ma che forse si rivelerebbe una chiave di lettura piuttosto utile nel contesto di generico protagonismo dell’artista), ciò che colpisce e soddisfa è l’accessibilità diretta e autentica della sua arte. Come l’artista cinese ha più volte sottolineato, l’arte rappresenta per lui una fonte di comunicazione attiva, proprio perché “l’informazione libera offerta a tutti è l’arte di oggi” e la battaglia che ha sempre portato avanti è stata quella per la libertà d’espressione: “Il mio scopo è sempre quello di ideare una struttura aperta a tutti. Non considero l’arte un codice segreto”. In ogni sua opera è immediato e chiaro il riferimento alla tradizione cinese, alle tecniche artigianali del suo popolo o alla storia della sua espressione, e questo senza dubbio determina nello spettatore la consapevolezza di un’arte contemporanea finalmente accessibile anche a lui. Un ambiente, quello della mostra di Ai Weiwei a Palazzo Strozzi, che celebra con sfarzo – e indiscutibile incanto – il glorioso passato di una civiltà che viene portata alla luce dal personaggio che ne è divenuto il simbolo vivente e che sembra volerci ricordare come la storia del suo Paese non sia solo quella degli ultimi discussi decenni.
LA MANCANZA DI UN MESSAGGIO SOCIALE
La mostra fiorentina inizia però a scricchiolare sul piano politico: è infatti il messaggio sociale quello che sembra mancare al progetto, elemento che non può essere trascurato per un artista che dichiara di credere nell’unità inscindibile tra arte e politica e afferma che “essere un artista è soprattutto una disposizione mentale, un modo di vedere le cose; non consiste tanto nel produrre qualcosa, non più”. Ai Weiwei entrò in contrasto col regime del suo Paese sin da piccolo, quando il padre Ai Qing, poeta di grande fama in Cina, fu imprigionato per reati di opinione e deportato in un campo di rieducazione. Già nel 1979, ancora prima del suo viaggio d’istruzione negli Stati Uniti (che lo porterà allo studio di Duchamp e Warhol, suoi principali modelli artistici), Ai Weiwei era tra i fondatori del collettivo degli Xingxing (diventati famosi in Occidente col nome di Stars), un gruppo di giovani artisti cinesi che rivendicavano “l’autonomia dell’arte come forma di libero pensiero”.
Nel clima di controllo politico del regime cinese la loro poetica superava i confini dell’arte tradizionale e si configurava piuttosto come protesta in favore della libertà d’espressione e del rispetto dei diritti umani. Appare interessante, notano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, gli autori del volume L’artista e il potere, constatare come all’inizio la maggior parte delle opere del movimento non avesse un carattere esplicitamente politico, ma lo ottenesse di fatto – come atto di trasgressione – mutuando e riproponendo i linguaggi delle avanguardie europee. La situazione occidentale negli stessi anni era ben diversa, il “mercato aveva già consumato quei temi” e in questo senso si può forse dire che gli artisti cinesi ottennero quel determinato successo proprio a causa della repressione del regime.
In più occasioni la lotta di Ai Weiwei per la libertà d’espressione e per i diritti umani fondamentali in Cina ha rappresentato il simbolo di una battaglia contro un regime repressivo e violento – toccando l’apice con l’indagine sui 5996 bambini morti a causa degli appalti truccati e della scarsissima sicurezza degli edifici scolastici durante il terremoto del Sichuan nel 2008 – ma la sua azione di ribellione in Europa, da quando ha lasciato la Cina, appare sicuramente più debole.
L’OCCIDENTE E LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE
Pur riconoscendo l’indubbio impegno dell’artista nel portare avanti la battaglia contro la repressione e le censure del regime cinese, è indicativo testimoniare come quella che si è poi rivelata la chiave del suo successo mediatico – il blog che ha aperto nel 2006 – sia stata offerta a lui proprio dal governo cinese, quello stesso che tre anni dopo glielo ha censurato, provocando un’ondata di indignazione sull’accaduto, ma regalandogli anche notevole visibilità. Anche il caso delle Olimpiadi di Pechino del 2008 ha portato vasta fama all’artista, beninteso: per aver boicottato pubblicamente l’evento, non per aver partecipato alla costruzione dello stadio. Quelle che vengono definite le “due facce del potere in Cina: la repressione e la promozione” (per cui una finisce inevitabilmente per alimentare l’altra) rendono evidente come il gioco non funzioni in una dimensione altra da quella della realtà cinese. La già citata denuncia di Ai Weiwei in seguito al terremoto del 2008, ad esempio, ha avuto un significato importante e un incommensurabile valore di arte sociale in quanto esplicita denuncia volta a una prospettiva di verità, di libera informazione e trasparenza. Allo stesso modo, l’installazione Reframe – ventidue gommoni arancioni sulla facciata del palazzo che svolgono la funzione di presentazione pubblica e biglietto da visita per l’esposizione – dovrebbe porre l’attenzione sulla più grande emergenza sociale occidentale, la tragedia dei migranti, ma per eguagliare l’incisività e l’efficacia dei progetti cinesi necessiterebbe di ben altro supporto morale ed etico. Il principale limite sembra essere proprio il contesto occidentale in cui Ai Weiwei adesso si esprime. La lotta che ha sempre portato avanti è infatti esplicitamente volta a rivendicare la propria libertà d’espressione – in un mondo in cui tale libertà veniva aspramente violata –, ma nel contesto politico occidentale, e nello specifico nei riguardi della tragedia dei migranti, quello che non manca è proprio la libertà d’espressione; al contrario viviamo un eccesso di impudenza nello strumentalizzare liberamente la questione.
LA LOGICA DEL DISSENSO AUTORIZZATO
A questo punto è forse necessario domandarsi che tipo di ruolo sociale ci aspettiamo dall’arte del nostro tempo e quale missione politica vogliamo affidarle, ammesso che lo si voglia fare. È indicativo inoltre come l’installazione che ha anticipato la mostra, fungendo da catalizzatore di attenzione, prefiguri un carattere politico incentrato sulla sensibilizzazione al tema dell’immigrazione che viene però amaramente deluso all’interno. Nessun simbolo e nessuna parola proseguono il messaggio della facciata esterna. Sorge quindi il dubbio che la provocazione sia stata fine a se stessa, che l’“alta consapevolezza del dovere dell’intellettuale” di cui parlava Argan, rimproverando già a Andy Warhol la colpa di un “dissenso autorizzato”, venga troppe volte trascurata nel mondo contemporaneo dell’arte. Certi aspetti sociali, se chiamati in causa, meriterebbero un opportuno e adeguato apporto etico, e quale miglior occasione di una retrospettiva sulla carriera trentennale di un artista che ha fatto della libertà e della lotta per i diritti i propri marchi di fabbrica per instaurare finalmente un dialogo culturale volto all’educazione, alla tolleranza e alla sensibilizzazione? È sufficiente chiedere questo all’arte odierna? Cioè che ci rammenti con sfocate denunce temi drammatici ed emergenze mondiali? Sarebbe necessario ben altro: un modello di antica virtù, un esempio improntato al bene della civiltà. Esportato al di fuori della realtà cinese il comportamento di denuncia di Ai Weiwei non basta più per costituirsi azione politica consapevole capace realmente di smuovere le coscienze e sollecitare gli animi, perché, come afferma lui stesso, per “provare che il sistema non funziona… non ci si può limitare a dire che il sistema non funziona. Bisogna lavorarci”.
Ecco come la mostra fiorentina dedicata ad Ai Weiwei si dimostra un’occasione persa per spingersi oltre, per offrire un contributo concreto e un effettivo appoggio alla causa, e una sua precedente affermazione assume oggi i toni di una triste profezia: “Vediamo moltissime opere d’arte riflettere le condizioni sociali di superficie, pochissime mettere in discussione i valori di fondo”.
Camilla Guidi
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