Critica viva (II). La strategia del reality
Sempre meno reale, la realtà del sistema dell’arte allontana i suoi protagonisti dall’esperienza. Costringendoli in un circuito chiuso, dove il criterio della rilevanza culturale non trova la sua ragion d’essere. L’antidoto? Un realismo ribelle, che rifiuta i cliché.
Concentrarsi sul realismo “fasullo”, di facciata, simulato.
L’immagine della realtà già attesa, incorniciata, ready-made. Pronta all’uso e al consumo – nessuno scarto, nessuna “sorpresa”, nessun terrore e nessuna meraviglia. Tutto rientra in un videogioco, in un gioco a premi. In un reality?
Indagare a fondo la “strategia del reality” che ha investito e regola anche il modo di vivere l’arte. Come il protagonista del capolavoro di Matteo Garrone, questi protagonisti più o meno giovani, più o meno brillanti, più o meno aggiornati vivono una costante simulazione, che sembra allontanare indefinitamente e drammaticamente l’esperienza.
E che c’è di male?
Nulla. Tranne il fatto che, naturalmente, la domanda è proprio mal posta. Di “male” ci sarebbe, volendo, il fatto che questa forma-di-vita peculiare si muove solo e soltanto all’interno di un circuito chiuso (il “recinto”; il “programma”) fatto di posizioni, di desideri, di sogni da realizzare. E tutto ruota malinconicamente attorno all’ansia del riconoscimento (così come, parallelamente, all’ansia dell’oscurità, dell’indifferenza, più ancora forse che del “riconoscimento”).
Se dunque l’orizzonte troppo vicino, troppo concreto è quello del prossimo posto, della prossima mostra, del “mondo” ristretto costituito dai propri contatti e relazioni, si aderisce senza problemi e senza scossoni – e senza critica – a un sistema di valori che, molto semplicemente, ha espulso lontano da sé il criterio della “rilevanza” culturale. Perché, banalmente, così è al momento più comodo, più produttivo, più efficace, più rilassante.
Non fare domande. Non esitare. Non indagare la tua condizione. Non parlare fuori dal coro. Non essere fuori tempo. Non cercare senso. Non produrre senso. Non desiderare troppo. Non allargare il tuo sguardo. Non rispondere. Non prendere posizione. Non arrivare tardi. Non arrivare troppo presto. Non muoverti. Non progettare. Non suggerire. Non trionfare.
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E come si fa, allora, a creare immaginario oggi, fuoriuscendo da queste dinamiche, da queste retoriche, creando l’attesa ed evidentemente anche un “gusto” differente? Cioè, detto altrimenti: come si fa a evitare l’aderenza al mainstream – fatto di racconti preordinati, ambiguità morale (la vecchia “fascinazione del male”), e di un impianto narrativo e tematico che deve molto, almeno nella sua versione italiana, al melodramma e alla commedia di costume, alla macchietta, alla caricatura, al grottesco?
Usando forse un altro tipo di grottesco; più filologico, per così dire.
Un realismo davvero efficace in questa fase storica deve sentirsela di evitare ogni cliché, a costo di essere percepito come “retrogrado”, ingenuo, troppo spontaneo, mal costruito, maleducato. Già. In una singolare e lucidissima profezia, l’aveva già spiegato nel lontano 1993 David Foster Wallace: “I veri futuri ‘ribelli’ letterari in questo paese potrebbero benissimo emergere come uno strano gruppo di antiribelli, guardoni nati che osano in qualche modo rifiutare il ruolo di spettatori ironici e che abbiano l’infantile faccia tosta di essere sostenitori e rappresentanti di una serie di principi privi di doppi sensi. Che semplicemente si occupino dei problemi e delle emozioni poco trendy della vita quotidiana americana con rispetto e convinzione. Che rifuggano dall’artificiosità, da quella forma di stanchezza annoiata che fa tanto ‘in’. Questi antiribelli sarebbero fuori moda, sarebbero sorpassati, chiaramente, ancor prima dell’inizio. Morti in partenza. Troppo sinceri. Palesemente repressi. Retrogradi, antiquati, ingenui, anacronistici. Forse sarà proprio quello il punto. Forse è proprio questa la ragione per cui saranno i veri ribelli del futuro” (in E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, “Review of Contemporary Fiction”, 13:2, Summer 1993, cit. in Luca Briasco, Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, minimum fax 2016, p. 33).
Christian Caliandro
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