Arte e politica. Intervista a Mike Nelson
Protagonista alla Galleria Franco Noero di Torino con un’opera realizzata e poi prelevata da un’ex sede bancaria di Monaco, Mike Nelson ha raccontato, in questa lunga chiacchierata, origini e sviluppi della sua pratica. Fra arte, politica e vita vissuta.
Il prezioso pigmento da cui è composto il blu oltremare, ampiamente utilizzato nei dipinti del Rinascimento, ma anche nell’Antico Egitto e dai Sumeri, viene ricavato dal lapislazzuli, una gemma che per millenni è stata estratta dalle montagne del Nord Est dell’Afghanistan, e che in tempi recenti è stata la seconda maggiore forma di finanziamento dei Talebani dopo l’oppio.
Partendo dalla connotazione storica ed economica di questo colore, in Cloak of rags (Tale of a dismembered bank, rendered in blue), Mike Nelson (Loughborough, 1967) opera una riflessione sui complessi rapporti tra arte e denaro, in un tentativo di tracciare una “archeologia” della situazione geopolitica attuale e delle sue dinamiche politiche.
In galleria troviamo una serie di sculture, macerie prelevate dalla sua mostra Cloak, poco prima che l’edificio che la ospitava venisse demolito. Per quella mostra Nelson aveva interamente dipinto l’interno di un grande palazzo di nove piani, che fu la sede della banca UBS a Monaco, di blu oltremare.
In Cloak of Rags l’artista attua un particolare cambio di valuta: una struttura che per anni ha avuto il compito di custodire denaro è stata dipinta con un colore che per secoli ha simboleggiato uno status, solo per poi essere smantellata e trasportata in galleria a Torino, con lo scopo di creare una mostra di detriti che, nell’ambito dell’arte, possono in un certo senso rinnovarsi e assumere un nuovo valore sotto forma di scultura.
L’INTERVISTA
Quali sono le origini di questo progetto?
Suad Garayeva-Maleki e Cristiano Raimondi mi chiesero se fossi interessato a lavorare con un intero edificio bancario a Monaco, che è già di per sé una strana città per una mostra, ma, se proprio devi farlo, allora forse una vecchia banca è un simbolo perfetto di ciò che Monaco può rappresentare.
In un certo senso, volevo fare un lavoro che fosse critico, riflettendo sulla struttura interna di quel posto, ma comunque ero consapevole della mia complicità nella situazione, dato che ero stato invitato dal Nouveau Musée National de Monaco, in parte finanziato da quella stessa banca.
Qual era il tuo obiettivo?
Volevo trovare un modo per creare un’opera che in qualche modo parlasse della relazione tra arte e denaro, ma in una maniera che non fosse troppo didattica o apertamente critica. Avevo anche il problema di come approcciare l’edificio, che è/era un palazzo relativamente grande, di nove piani. Nonostante la sua parte esteriore fosse davvero affascinante, all’interno era parecchio brutto. La mia opera avrebbe dovuto interessare l’intero ambiente. L’idea di dipingerlo interamente era un pensiero iniziale, al contrario di ricostruire tutto l’ambiente per intero, come avevo fatto per esempio a Venezia per la Biennale. Mi sono ispirato ad alcune conoscenze base di storia dell’arte di quand’ero al college, e ho ripensato ai primi testi che ho letto riguardo la diffusione dei colori, e a come il blu oltremare venisse usato dai pittori del Rinascimento, ma anche nei monumenti neolitici e nelle tombe Egizie.
Perché la scelta del colore blu?
Cercavo una maniera interessante di pensare alla relazione storica tra arte e denaro, ma anche riguardo alla complessa struttura della finanza globale. Come colore, il blu oltremare è molto connesso a dinamiche politiche, dato che proviene dall’Afghanistan. Mi piaceva anche l’immagine che suscita il suo nome, Oltremare, specialmente mentre stavo sulla terrazza al sesto piano della banca, che domina sul Mediterraneo. Rendere blu qualcosa ha anche un effetto fenomenologico sullo spettatore, è un’esperienza che può indurre la trance, che acutizza il senso della realtà, rendendo complessa la potenzialità dei significati storici e politici che pervadono questo colore. Ricorda inoltre il blue screen di un computer, un’immagine di mezzo, un riferimento a un’altra realtà possibile.
La tua opera, poi, è stata trasportata a Torino…
Anche prima di aver realizzato il lavoro, stavo già pensando alla potenzialità data dalla demolizione dell’edificio. Il motivo per cui sono stato invitato a realizzare l’opera è che l’edificio sarebbe stato in parte demolito, e tutti gli interni completamente ricostruiti. L’immagine della demolizione mi era ben chiara fin dall’inizio, è stata una parte importante dell’intero processo. Quindi, dopo la chiusura del progetto abbiamo fisicamente asportato sezioni dell’edificio e le abbiamo portate in galleria. È un cambio di valuta, perché in un certo senso abbiamo preso la stessa struttura destinata a contenere valore, un po’ come dei tombaroli, e l’abbiamo portata a Torino. Comunque, tutto quello che vedi in mostra e che proviene da quell’edificio non ha un valore intrinseco. Ha trattenuto, delineato e ospitato un enorme valore, ma ora sono solo mattoni, legno, pezzi di mobilio… Ora stiamo costruendo una mostra di oggetti che potenzialmente hanno un altro valore, ma sotto forma di qualcosa che viene ritenuto arte. In fin dei conti, è un discorso un po’ malinconico sull’instabilità economica.
L’idea di ricostruzione e creazione di un’opera d’arte che ha origine da una precedente distruzione era anche presente nel lavoro che hai realizzato nel basement della galleria lo scorso anno.
Penso sia un motivo abbastanza ricorrente nel mio lavoro. Andando indietro nel tempo, nella mia mostra del 1993 al Chelsea College of Arts realizzai A staging of the reconstruction of the southern palace of Babylon, una ricostruzione in blocchi di cemento di una sezione del Palazzo Meridionale di Babilonia. Il lavoro partiva da una riflessione riguardo l’insensibile – specialmente dal punto di vista degli archeologi occidentali – ricostruzione di Babilonia operata da Saddam Hussein, che era interessato alla manipolazione della cultura per i suoi fini politici. Ho trovato che ci fosse come dell’umorismo nero nell’orrore degli archeologi, se consideriamo dove si trovano attualmente le parti mancanti di Babilonia! Il mio lavoro era composto da blocchi di cemento tra loro simili. Visivamente, all’interno della galleria, il lavoro appariva come la posa di fondamenta su cui costruire un nuovo edificio, ma anche come una serie di finte rovine. Per certi versi richiamava la fondamentale opera di Robert Smithson Hotel Palenque, uno slideshow di un hotel semi costruito in Messico in cui il periodo di costruzione è stato prolungato per così tanto tempo da far coesistere l’edificio in uno stato tra costruzione e rovina. Penso che questo elemento sia una costante nel mio lavoro.
E a Torino, invece?
In galleria a Torino c’è una sorta di umorismo nero verso questa idea di un’archeologia del passato recente, che è in realtà un tentativo di tracciare un’archeologia della politica attuale. Tra gli oggetti più visivamente seducenti in mostra ci sono delle colonne classiche in gesso, che abbiamo asportato dall’edificio. Nel loro stato di sfacelo, mi ricordano per certi versi la mia visita a Palmira, negli Anni Novanta, e il particolare senso di bellezza che solo le rovine possono avere. Conservano un’idea di spaccatura in ambito politico ed economico, ma anche di una spaccatura più fisica. Questo ha alimentato il mio pensiero mentre stavo lavorando alla mostra.
Cosa ti ha colpito di più di quella tua visita a Palmira?
Quando ero al college, negli Anni Ottanta, ho avuto modo di viaggiare in Turchia. Ci sono tornato nei primi Anni Novanta, e in quel periodo sono anche stato in Egitto, Marocco e Tunisia. Sono diventato abbastanza ossessionato da questa regione. I motivi del mio interesse sono probabilmente multipli, ma penso che uno dei principali sia la mia posizione di cittadino Inglese, con un incredibile passato coloniale e imperialista, e con una complessa storia attorno all’idea dell’esotico e dell’esotismo. Ero attirato dalla mia posizione in questo lignaggio, che aveva molto a che vedere con gli interessi predominanti del tempo, il clima culturale in cui si parla di culture “altre” e le storie a queste associate. Negli Anni Ottanta, cercare di innestarsi in questo discorso dalla mia posizione era altamente problematico, ma era questo l’aspetto che maggiormente mi intrigava. Con il passare del tempo penso sia diventato meno controverso, dato che il mondo oggi viene ritenuto “globalizzato”.
Quali sono le ragioni del tuo interesse verso quell’area geografica?
Sono cresciuto nella campagna dell’Inghilterra centrale, e non sono mai stato all’estero tranne che per uno scambio scolastico in Francia quando ero teenager, quindi il mio primo viaggio lontano da casa, nell’Est della Turchia, fu uno shock. Ha avuto un effetto simile a quello di un’intossicazione: la sensazione dei suoni, dei colori, del caldo, del cibo, degli odori è stata davvero molto intensa. Penso che abbia gettato le fondamenta per il mio tentare di realizzare opere che in qualche modo catturassero questa esperienza e la analizzassero, conservandone la storia alla base ma utilizzandone anche le sensazioni tangibili. È per puro caso che sia ossessionato dalla cultura del Medio Oriente. Potenzialmente, avrei potuto ritrovarmi allo stesso modo assorto dalla cultura dell’Unione Sovietica, a cui anche ero interessato al tempo, o da quella del Sud America o di Papua Nuova Guinea… Ma è stato là che mi sono ritrovato. Oppure, che mi sono perso.
Che cosa ricordi del clima politico e culturale di allora?
Per molti versi, quello che ho provato era all’antitesi della cultura in cui ero cresciuto. La secolarità della cultura britannica era agli antipodi con il costante suono del richiamo alle moschee, qualcosa che sembrava sottolineare l’importanza del credo religioso di quei Paesi. Penso fosse stato in sostanza un risveglio politico: nel 1995, parlando con giovani uomini in Pakistan, era già molto chiaro che la prossima generazione sarebbe diventata parecchio antagonista nei confronti dell’Occidente, si stava maturando la convinzione che ci fosse una cospirazione contro di loro in quanto mussulmani da parte del mondo occidentale. Se fossi stato un ragazzo pakistano nella metà degli Anni Novanta, e mi fossi informato su ciò che stava succedendo in quel periodo nei Balcani o in Cecenia o riguardo alla situazione in Palestina, penso che avrei potuto credere a una cospirazione, o a un complotto, contro il mondo islamico o mussulmano.
Questo succedeva prima di Internet.
Penso che Internet per molti aspetti abbia aggravato il processo. Qui sto dicendo che posso capire queste cose, non che le sto giustificando. Quando ero al college ricordo di aver visto uno dei miei film preferiti, nato dall’incredibile collaborazione tra Michael Powell ed Emeric Pressburger, Duello a Berlino. Il film narra di un soldato inglese e di uno prussiano: si conoscono prima delle Guerre Mondiali, diventano amici ma si separano durante i conflitti, incontrandosi poi sporadicamente nel corso delle loro vite. La storia è anche una riflessione sul modo in cui è cambiata la guerra, da qualcosa che alla fine dell’Ottocento veniva orchestrato come un disciplinato gioco di scacchi alla violenta offensiva della Seconda Guerra Mondiale e dei Nazisti, dove ogni idea di regola, o decenza – per quanto possa essere stata sbagliata – è scomparsa. Mi ricordo di averlo visto e di aver pensato che la prossima guerra mondiale sarebbe stata un costante stato di terrorismo sparso per tutto il mondo. Uno potrebbe legittimamente affermare che oggi ci troviamo in una situazione simile.
Probabilmente è davvero così.
Penso che questa situazione fosse già scritta. Ma forse ora stiamo un po’ divagando.
No, penso che sia rilevante. In fondo è da qui che nasce il tuo lavoro. Quali esperienze di vita hanno contribuito maggiormente a dare forma alla tua ricerca?
Quel primo viaggio in Turchia nel 1987, e poi i viaggi successivi. Ho passato tre mesi favolosi a Bucarest nel 1996, durante una residenza, e questo ha influenzato enormemente il mio lavoro. Nel 1996 c’è anche stata la morte di un mio caro amico, Erlend Williamson. Eravamo assieme al Chelsea College, lavoravamo assieme, aiutandoci l’un l’altro con le mostre. È stato il miglior collaboratore che abbia mai avuto. C’è una serie di lavori che ho fatto negli Anni Novanta, chiamata The Amnesiacs, che ha a che fare con lui.
Da dove viene il titolo The Amnesiacs?
Avevo scritto un progetto per una residenza a Berwick-upon-Tweed mentre ero su un treno per Budapest nel 1996. L’ho scritto come un racconto di fantascienza. Ho preso un personaggio da un romanzo di J.G. Ballard e l’ho trasposto in una struttura presa in prestito da Solaris di Stanisław Lem. Il personaggio era un tipo solitario, un vagabondo che fruga la spiaggia alla ricerca di oggetti abbandonati, e ho cercato di immaginarlo mentre raccoglieva dei detriti dalle coste di ogni continente, intendendo questi oggetti come un linguaggio che viene emesso dagli oceani, quasi come se fossero delle entità intelligenti che stavano cercando di comunicare con noi attraverso questi oggetti. Era uno strano miscuglio che attingeva anche al film Stalker di Tarkovskij, a sua volta ispirato dal libro Un picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij.
Ma quando arrivai nel Nord-Est dell’Inghilterra, dove si teneva la residenza, durante il primo weekend il mio amico Erlend e la sua fidanzata, Ania Rachmat, un’artista indo-olandese, sarebbero dovuti venire a trovarmi, ma non si presentarono mai. Tre giorni dopo abbiamo ricevuto una telefonata. Erlend era precipitato durante una scalata ed era morto a Glencoe, in Scozia.
Che cosa successe dopo?
Ho passato i successivi sei mesi invernali sul confine tra Inghilterra e Scozia – è stato un periodo difficile. Ho dovuto fare i conti con questa perdita, eravamo davvero molto legati. Il mio interesse per Lem e i fratelli Strugackij crebbe molto, e crebbe attraverso l’idea che in epoca sovietica la fantascienza veniva impiegata come un genere di fiction poco colta, che quindi poteva passare inosservata, bypassare la censura, criticare lo Stato e commentare la condizione umana sotto il regime. Decisi di adattare la narrazione a un contesto inglese. Scelsi il biker genre dei primi Anni Settanta, che è un mercato veramente di nicchia, se così possiamo definirlo. Ho pensato di poterlo usare in una maniera simile, per parlare delle questioni politiche e sociali dell’Inghilterra degli Anni Novanta. Mi piaceva l’idea di una sorta di sottoclasse bianca delle campagne che ascolta heavy metal, motociclisti esistenzialisti senza motociclette, e questo sembrava perfetto. Ma quando Erlend morì, tutto si fece più complicato, perché alla base del discorso narrativo di Solaris c’è l’idea di perdita. Chris Kelvin, il protagonista, è perseguitato dal ritorno della sua fidanzata morta, che è un’allucinazione resa reale dall’oceano senziente del pianeta Solaris. In un certo senso, la fiction per me divenne reale, in termini di questo senso di perdita alla base del progetto. Quindi, invece di solamente emulare questa idea, stavo davvero attraversando un reale senso di lutto.
Dunque The Amnesiacs?
Penso che stessi guardando Amateur di Hal Hartley quando decisi che l’amnesia fosse l’espressione più vicina possibile a ciò che stavo provando, la perdita di qualcuno così caro. Continuavo a esistere in un mondo dove tutto appariva esattamente identico al mondo che avevo da sempre ricordato, ma che ora in qualche modo era completamente diverso. Immaginati un rimbalzo, come quello di un proiettile, che subito ha una certa traiettoria ma che poi colpisce qualcosa e parte con un’inclinazione del tutto diversa. In un certo senso quello è uno stato che potevo equiparare con l’idea di amnesia. Immaginai che, se avessi sofferto di amnesia, avrei di tanto in tanto avuto come dei flashback, dei barlumi della vita com’era prima, una vita prima della morte di qualcuno molto vicino. Quindi decisi di inventarmi una gang di motociclisti chiamata The Amnesiacs, che non hanno né motociclette né corpi, ma che continuano a cercare tra i detriti spinti dal mare per provare a dare un senso alla vita, alla morte e al mondo artificiale. È strano, ma di recente stavo proprio pensando agli Amnesiacs a proposito della Brexit e del recente avvento di Trump. In un certo senso, l’idea era che gli Amnesiacs fossero nati dalla Guerra del Golfo, così come gli Hells Angels nacquero dalla Seconda Guerra Mondiale, e i Bandidos dalla Guerra del Vietnam. Erano prevalentemente veterani, ma non sempre, e si può supporre che fossero maschi bianchi provenienti dalla disillusa classe operaia.
È interessante parlare del tuo lavoro in questo particolare momento storico, dove percepiamo come una tensione tra ciò che è finto e ciò che è reale, ma anche uno strano, continuo scambio tra le due cose. E nel tuo lavoro è sempre presente una sovrapposizione tra finzione e realtà.
Il motivo per cui ho più successo oggi di quanto mai abbia potuto averne prima è per un lavoro del 2000 chiamato The Coral Reef, di nuovo preso in prestito da Stanisław Lem, Italo Calvino e William S. Burroughs. Era basato principalmente sulla struttura di A Perfect Vacuum di Lem, una raccolta di recensioni di libri non esistenti il cui primo capitolo era una recensione di se stesso. Ho impiegato questa sorta di struttura letteraria per creare uno spazio fisico formato da molte reception, ispirate principalmente a quelle dei piccoli uffici dei taxi a chiamata. Osservandoli a Londra, ho sempre avuto l’impressione che fossero la facciata di qualcos’altro, c’era sempre qualcosa che succedeva nel retro che non avresti mai potuto vedere. L’installazione era composta da una serie di reception, dove una portava alla successiva, con sale che rispecchiavano ciascuna una diversa struttura di credenze. Il lavoro ti invitava a perderti nel mondo perduto di questi credi sepolti. Oggi sembra molto pertinente rispetto al mondo in cui viviamo.
Matteo Mottin
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