Intervista a Ramdom. L’arte agli estremi confini d’Italia
Fondatori dell’associazione nata in Puglia nel 2011, Paolo Mele e Luca Coclite ne raccontano origini e obiettivi. Puntando l’attenzione sul legame fra creatività e territorio.
Sostenibilità, dialogo con il contesto socio-ambientale e con gli artisti coinvolti bei diversi progetti territoriali sono i punti cardine delle azioni messe in campo da Ramdom, l’associazione ideata da Paolo Mele e Luca Coclite, a partire da Lecce.
Di cosa vi occupavate prima di fondare l’associazione Ramdom?
Paolo Mele: Ho cambiato la mia strada nel 2008, ho lasciato Lecce e la mia attività legata alla comunicazione, per andare a Torino per lavorare alla Biennale giovani artisti come project manager. Nel 2010 uscirono i primi bandi regionali legati alle attività giovanili e Luca e io partecipammo insieme. Ci conosciamo da sempre, siamo cresciuti a cento metri di distanza a Gagliano del Capo, avevamo fatto delle cosette insieme, ci siamo riavvicinati per comuni interessi artistici e culturali. Questo portò all’idea di presentare un progetto per il bando regionale Principi Attivi e per la costituzione dell’associazione. Il primo progetto fu Default, nel 2011.
Luca Coclite: Io ero molto legato all’attività culturale di Bologna, dove ho vissuto fino al 2013. Non di rado mi capitava di prendere parte come artista al fermento che da sempre contraddistingue la città, ma i legami con la terra natia rimanevano ben saldi.
Il Salento, reduce dal primo decennio del nuovo millennio, dove si impose come brand, era alle prese con un nuovo tipo turismo, più vicino alla ricerca di un “carattere” che all’ombrellone. Parallelamente godeva della costante crescita di piccoli esperimenti culturali da parte di chi, come me e Paolo, sentiva il desiderio di identificarsi con una piccola rivoluzione territoriale che era e che è tutt’ora in corso. Negli interstizi tra lo stantio e lo smottamento di questa trasformazione è nato Default, la nostra prima esperienza con Ramdom.
In cosa consisteva Default, il vostro progetto di indagine che dal 2011 a oggi ha indagato diverse questioni e coinvolto artisti e operatori di differenti geografie e aree di ricerca.
Avvertimmo come cruciale una riflessione sugli spazi indipendenti e sul ruolo che essi esercitano all’interno della società. Eravamo pienamente coscienti del fatto che, in Puglia, un’analisi sulle pratiche, sul ruolo dei luoghi istituzionali dell’arte e sulla necessità di un confronto con esperti del settore provenienti da diverse parti del mondo poteva e doveva essere un punto fondante del nostro progetto.
Default nasce dunque così: trenta operatori, “costretti” per dieci giorni a vivere e lavorare insieme, notte e giorno, comunicando in lingua inglese Agli artisti non chiedevamo la produzione di opere, ma un approfondimento teorico su tematiche legate all’arte nello spazio pubblico. Invitammo venti artisti e dieci ospiti internazionali, tra cui Céline Condorelli, Alfredo Cramerotti e Andrea Lissoni. Scegliemmo le Manifatture Knos come base di lavoro, e altri spazi della città di Lecce legati a progetti di rigenerazione urbana.
Due anni dopo, nel 2013, arriva il nuovo Default con il focus sull’Asia.
Decidemmo di fare di Default un’esperienza biennale. Lavorammo a una partnership con Arthub Asia e decidemmo di volgere lo sguardo a un continente di cui conosciamo così poco, ma il cui fermento è palese. Nuovamente, attraverso una call internazionale, selezionammo venti artisti e invitammo dieci “guest” di rinomata fama: è stato un lavoro molto importante per noi, per il consolidamento della nostra reputazione e per il posizionamento rispetto al lavoro che si voleva fare.
Grazie al dialogo che si instaurò tra gli artisti occidentali e quelli asiatici – Alessandro Carboni, Marco Ceroni, Felicity Hammond, EunYoung Kang, Gilly Karjevsky, Farid Aditama Rakun, questi ultimi con una coscienza totalmente diversa rispetto alle cose e allo stato dell’arte –, il discorso che ne derivò fu inaspettato. Uno dei nostri intenti era proprio questo: il desiderio di portare in superficie le differenze e le contraddizioni di un dialogo capace di mettere in crisi alcune convinzioni date per scontato.
Quale è stata la reazione del territorio in cui avete avviato la vostra programmazione?
Pagavamo una condizione personale, eravamo a mezzo servizio sul territorio e sempre più sganciati dalla città. Il richiamo delle terre natie, dell’estremo, era sempre più forte.
A fine 2013, con l’esperienza sentivamo che qualcosa stava per cambiare, ci eravamo resi conto che sarebbe stato difficile continuare quel progetto a Lecce, anche per via di un’attitudine della città e di alcuni soggetti.
Inoltre, fino al 2015 non ci siamo mai dovuti porre il problema dello spazio fisico, lavorando su progetti di residenza e site specific; spostarci ancora più a sud, a Gagliano del Capo, in un contesto a noi più familiare, seppur ancor più difficile sotto il profilo progettuale, ci faceva sentire maggiormente a nostro agio. Allo stesso tempo sentivamo il problema della sostenibilità: a oggi Ramdom resta l’unica associazione attiva e in costante crescita rispetto alle attività finanziate per il capitolo arte del bando Principi Attivi.
Avete poi avvertito l’esigenza di avere un “tetto”, di avviare un programma in uno spazio tutto vostro. Com’è nato Lastation, lo spazio non profit che avete a Gagliano del Capo?
Non sentivamo un’esigenza concreta. La sopravvivenza di realtà come le nostre sul territorio è fortemente condizionata dalla tipologia di risorse economiche che si possono intercettare.
Per il progetto GAP, finanziato da Fondazione con il Sud, elaborammo una proposta con la direttrice artistica Francesca Marconi: un progetto di residenze d’artista integrate nel tessuto urbano. Scattò l’ipotesi di spostare l’attenzione verso sud, così pensammo di dirottare i progetti di residenza nelle terre estreme, anche perché su Lecce, all’interno di GAP, c’erano già altre attività in programma. Prendeva forma, in maniera embrionale, l’indagine sulle terre estreme. Poi, nel 2013, fu pubblicato Mente locale, un bando della Regione Puglia per l’assegnazione dei primi piani di stazioni ferroviarie funzionanti e decidemmo così di partecipare con un progetto sulla stazione di Gagliano-Leuca, il capolinea, Last station.
Lo spazio ci è stato assegnato solo a metà 2015, dopo oltre un anno e mezzo di attese figlie di inadempienze e burocrazie istituzionali. Cambiarono anche le condizioni di assegnazione dello spazio, ma questa è un’altra storia….
In precedenza, però, con i progetti di Andreco, De Mattia, Carboni e dello stesso Coclite, avevate già avviato una progettualità nel Capo di Leuca.
La ri-scoperta della parte estrema di questo territorio come zona periferica potenzialmente di valore, l’immagine-paesaggio (estetico/sociale) come protagonista eccellente da esibire nel mondo dell’arte contemporanea, ci hanno portato a considerare quest’ultimo come soggetto intorno al quale creare una progettualità. Nel 2014 con GAP abbiamo iniziato a lavorare sul territorio: Carboni con il suo importante lavoro di mappatura, a metà tra un progetto artistico e di ricerca, ci ha aiutato molto a indagare il territorio. Andreco ha lavorato sul paesaggio e i suoi elementi. Molto prezioso è stato lo sguardo di Coclite, che ha lavorato su diversi livelli. Come artista, infatti, aveva già avviato la sua indagine sul paesaggio locale: questo suo lavoro è stato molto utile anche per gli altri artisti e curatori invitati da Ramdom.
Lavorate in un contesto apparentemente periferico, ma con una programmazione proiettata su un profilo nazionale e internazionale. Come hanno reagito i cittadini di Gagliano e del Capo?
Lavorare con progetti artistici complessi, con livelli di lettura diversi, cercando di essere inclusivi, non è semplice. Laddove è necessario, cerchiamo di coinvolgere la comunità facendo bene attenzione a non correre il rischio di ritrovarci a imporre dall’alto qualcosa di cui magari non si sente il bisogno. D’altro canto la comunità reagisce anche in maniera spontanea, rispetto ai progetti, generando delle connessioni interessanti.
Quelli legati all’arte contemporanea difficilmente sono progetti di massa, il lavoro sul pubblico e il coinvolgimento della comunità, pertanto, è sempre progressivo: ogni progetto lavora sull’inclusione di pezzi diversi di comunità e di fasce differenti. Lo spazio permanente [Lastation, N.d.R.], poi, ha aperto un orizzonte completamente diverso: ci siamo dovuti porre dei problemi nuovi, tanto a livello pratico quanto programmatico. In un territorio come il nostro, in cui è ancora molto debole il mecenatismo artistico e l’arte contemporanea non rientra nelle priorità artistico-cultuali dell’agenda nazionale, i progetti puramente legati all’arte non sono ancora sostenibili economicamente. Il lavoro con la comunità locale, pertanto, diventa imprescindibile. È anche vero che questo ci sta aiutando progressivamente a sdoganare alcuni temi e pratiche.
Anche per questo motivo Lastation è diventato uno spazio di inclusione. Organizzate concerti e altre attività.
Concerti, performance, talk, screening: è un lavoro costante di inclusione. Però è chiaro che è molto difficile. Da noi, la generazione 18-35 (e non solo quella) è praticamente stagionale o natalizia, vivono quasi tutti fuori e rientrano per le feste. Sentiamo molto il gap. Il resto della comunità, talvolta, ci vede come delle persone un po’ “strane”. L’arte è quasi sempre vista come qualcosa di diverso.
A Gagliano, da un po’ di anni, c’è Capo d’arte, progetto di Francesco Petrucci e Francesca Bonomo che negli ultimi anni, con la curatela di Massimo Torrigiani, ha portato progetti di respiro internazionale.
Capo d’arte ha rappresentato un’importante spinta di attivismo sul territorio, questo ci ha aiutato molto. Quando ho incontrato Francesco Petrucci per la prima volta ci confrontammo sulle differenze dei nostri progetti, ma questo non ci ha impedito di trovare anche tanti altri punti di contatto e di costruire, nel tempo, una proficua collaborazione, intensificando e valorizzando le differenze. A oggi, questo è diventato il valore aggiunto di Gagliano.
Avete anche un trascorso di progetti extramoenia.
Non quanto vorremmo, c’è sempre poco tempo e ancor meno risorse. Tra i progetti a cui siamo più legati c’è il panel con Arthub Asia che abbiamo realizzato a Shanghai nel 2013. Nel 2014 siamo stati selezionati ad ArtVerona, all’interno del progetto Independent, nel 2015 a Milano per Spazi. Il multiverso degli spazi indipendenti, e nel 2016 prima a New York, presso Residency Unlimited, e successivamente a Torino per Nesxt, un nuovo progetto legato alle non profit curato da Olga Gambari. Per fortuna non solo trascorsi, ma anche progetti futuri: ad aprile 2017, le terre estreme viste da Carlos Casas approderanno in mostra a Shanghai.
Lo scorso anno, proprio con Carlos Casas, avete proposto un lavoro molto complesso di indagine sulle terre estreme. Com’è nato il suo progetto a Gagliano?
Paolo Mele: Anche lì c’è l’eredità che ci portiamo dietro, fu Lissoni a consigliarmi di conoscere Carlos Casas, che aveva già indagato altre tipologie di territori estremi. L’ho incontrato a New York nel 2014, gli feci vedere un po’ di materiali e gli proposi un progetto da fare insieme a Gagliano. Gli domandai se avesse senso fare un lavoro in quell’area, chiaramente con prospettive diverse rispetto al suo lavoro in Patagonia o Siberia. L’idea gli piacque, e ora è quasi un cittadino onorario di Gagliano. Ha realizzato dei lavori di cui siamo orgogliosi. È un artista di rara sensibilità e capacità analitica.
Luca Coclite: Ho conosciuto il lavoro di Carlos Casas diversi anni fa in occasione di un festival, il suo modo di affrontare con centralità e definizione accurata la sospensione generata dalle immagini e dai suoni, il purismo dei paesaggi remoti rappresentatati dai suoi film, mi hanno profondamente colpito.
Per me è stato un privilegio averlo potuto accompagnare nella costruzione di una visione scaturita dai luoghi che conosco dalla nascita.
Tra qualche mese ci sarà una nuova indagine sulle terre estreme, con l’edizione 2017 di Default. Qualche anticipazione?
Dal 2013, ormai, ci accompagnano nel coordinamento curatoriale di questo progetto Heba Amin e Francesca Girelli. Agli artisti selezionati, in questa edizione, chiederemo di produrre dei lavori che saranno esposti a fine luglio. Vorremmo lavorare su spazi inediti e lavorare ancor di più con la comunità. Non mancheranno gli eventi collaterali.
Immaginatevi tra dieci anni. Chi sarete?
Paolo Mele: Il mio augurio è che attraverso il rafforzamento di questa esperienza si possa arrivare a una ri-caratterizzazione semantica del territorio, vorremmo che quel territorio estremo diventasse un laboratorio a cielo aperto, uno spazio artistico e culturale in cui poter lavorare costantemente su mostre, progetti di residenza e renderlo ancor più forte.
Vorrei poi continuare a intessere connessioni internazionali, sia per l’associazione che a livello personale.
Luca Coclite: Mi immagino allo stesso modo di come sono ora, impaziente di fronte a una continua ricomposizione delle cose, nel tentativo di generare una nuova conoscenza.
– Lorenzo Madaro
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