Artisti da copertina. Parola a Edoardo Aruta
Nuova chiacchierata con gli autori delle cover di Artribune Magazine. Stavolta la parola va a Edoardo Aruta, fondatore del collettivo Gli Impresari e interessato alla relazione tra presenza umana e contesto, interpretata attraverso una gamma di tecniche eterogenee.
Voleva fare l’architetto ma ha deciso di frequentare l’Accademia di Belle Arti di Roma, poi lo IUAV di Venezia. Ha fatto di tutto: scenografo, macchinista, assistente a diversi artisti, tra cui Vettor Pisani, e nel 2014 ha fondato il collettivo Gli Impresari. Classe 1981, Edoardo Aruta perlustra le città, perché a interessarlo sono i “fenomeni sottostanti la nostra esperienza di vita quotidiana”.
Che libri hai letto di recente?
Il Monte Analogo di René Daumal, L’architettura di sopravvivenza di Yona Friedman, De la causa, principio et uno di Giordano Bruno, Vedute sul mondo reale di Georges I. Gurdjieff e Perché leggere i classici di Italo Calvino.
Che musica ascolti?
Mi piace scoprirne sempre di nuova, per quanto rimanga attratto da quegli autori che si sono distinti per libertà e capacità di rinnovamento. Ascolto spesso Beastie Boys, Talking Heads, The Clash, Claudio Villa, Umm Kulthum e alcune composizioni di Niccolò Paganini.
I luoghi che ti affascinano.
Mi lascio sedurre da quei luoghi che mantengono evidenti i caratteri identitari che sono loro propri e nei quali sono visibili le tracce lasciate dal tempo; in particolare se questi sono porti, stazioni, piazze e luoghi di culto.
Le pellicole più amate.
Fitzcarraldo di Herzog, Sacco e Vanzetti di Montaldo, Il caso Mattei di Rosi, Roma di Fellini e The meaning of life dei Monty Python.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
William Turner, William Morris, Gian Lorenzo Bernini, Costantin Brancusi, Pino Pascali, Gordon Matta-Clark, Jeremy Deller, Francis Alÿs, Ettore Petrolini, Pier Paolo Pasolini e Gian Maria Volonté.
Nel 2014 fondi, con Marco Di Giuseppe e Rosario Sorbello, Gli Impresari, nato come progetto per un bando di residenza alla Bevilacqua La Masa. Il collettivo è impegnato in un “lavoro di ricerca sulle forme della scenotecnica teatrale”. Ovvero?
Abbiamo esplorato il mondo sofisticato delle macchine teatrali: dispositivi che storicamente contribuivano a creare un’atmosfera di magia, con l’obiettivo di divertire e distrarre il pubblico d’élite, ma soprattutto di meravigliare il popolo con il fine di esaltare il potere delle classi dominanti.
Hai detto di essere interessato ai fenomeni sottostanti l’esperienza di vita quotidiana, dall’interazione con i luoghi alla relazione tra persone e “oggetti”. Fammi degli esempi con alcune tue opere.
La richiesta al Ministero dello Sviluppo Economico di emissione di un francobollo che abbia come soggetto le nuvole, la copia in marmo di una sedia richiudibile Ikea, la progettazione di una polena e la realizzazione di un violino.
Lo studio dei vari linguaggi dell’arte e della relazione tra essere umano, spazio e contesto che lo accoglie ti hanno portato a indagare più mezzi: scultura, installazione, disegno, fotografia, performance, interventi ambientali. Con quali obiettivi?
Non avere limiti tecnici. La realizzazione di un progetto dev’essere orientata solo da sentimenti e visioni. Maggiori strumenti d’indagine stimolano la sfida alle regole del mondo materiale e permettono di trasgredire convenzioni consolidate. Tale approccio mi ha migliorato prima come uomo, poi come artista, e tanto mi basta.
Giri per le città fotografando scritte sui muri. Poi però trasformi quegli scatti in disegni molto dettagliati. Qual è il messaggio?
Il progetto Paesaggi sociali tratteggia la parola come strumento per mantenere la sovranità di chi abita lo spazio urbano. Le scritte illegali sui muri delle città, oltre a documentare stili di vita e cambiamenti radicali, hanno il potere di inoltrarsi nella coscienza collettiva mediante il valore della parola scritta. Il fine è restituire l’anima di ogni singolo messaggio che decido di documentare.
Alcune tue opere giocano sul concetto di equilibrio, di stabilità precaria, ad esempio l’immagine di due macchine sovrapposte specularmente.
Giocando sul piano dell’illusione ottica, queste azioni sono un invito ad abbandonare le certezze. Mi piace pensare alla stabilità precaria come a un traguardo raggiunto più che come a un fallimento. Quell’opera fa parte di una serie d’interventi, che progetto per luoghi specifici, chiamata Quando la materia perde gradualmente consistenza. Per quest’immagine in particolare provavo il desiderio di alterare la realtà di un centro autodemolizioni quale luogo rappresentativo dell’industria pesante. È stata creata mettendo in equilibrio due auto tra di loro con l’obiettivo di conquistare una zona dello spazio/tempo, in cui l’utopia può essere considerata come una dimensione del reale.
Hai origini romane ma hai trascorso molto tempo a Venezia. Ora ci sei tornato. Cosa ti ha portato questa volta in Laguna?
Dedicherò la mia attenzione agli studenti del primo anno del corso di laurea triennale di Arti Visive dello IUAV di Venezia, come collaboratore alla didattica di Enrico De Napoli (Ryts Monet).
Com’è nata l’immagine che hai creato per la copertina di questo numero?
Per spiegarla prenderò in prestito le parole di Italo Calvino tratte da Perché leggere i classici: “È il gioco di una società che si sente elaboratrice e depositaria di una visione del mondo, ma sente anche farsi il vuoto sotto i piedi tra scricchiolii di terremoto”.
– Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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