Gli artisti e i migranti. L’intervista a Liu Bolin
Protagonista della mostra ospitata dai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, Liu Bolin si racconta. Affrontando alcuni delicati temi del presente: dalla migrazione alle questioni identitarie fino alla responsabilità sociale di cui l’artista è portatore.
Palermo accoglie Migrants, progetto prodotto dalla galleria Boxart di Verona e in mostra ai Cantieri Culturali alla Zisa, all’interno del cartellone di BAM. Biennale Arcipelago Mediterraneo, festival promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune. In Sicilia, avamposto del Mediterraneo, l’artista cinese Liu Bolin non può non occuparsi di politica internazionale. Nel corso della sua permanenza a Catania, nel 2015, è stato protagonista di tre azioni pubbliche insieme a decine di migranti ospiti del C.A.R.A. di Mineo, il più grande centro di accoglienza in Europa. Un’esperienza raccontata da una serie di fotografie, dal titolo Target, un video documentario e da alcuni oggetti di scena.
Classe 1973, catapultato dalla provincia dello Shandong allo star system dell’arte contemporanea cinese, Liu Bolin usa pittura e scultura, performance e fotografia. Nessuna manipolazione digitale. Sperimenta senza fine l’artificio del camouflage, dipingendo sapientemente il proprio corpo e quello degli altri interpreti fino a sparire all’interno di una molteplicità di scenari: architetture, paesaggi e città di tutto il mondo. Quella di Liu Bolin assurge a testimonianza a occhi chiusi, silenziosa e camaleontica, costretta a farsi significante muto, a mimetizzarsi per sopravvivere.
Tra body painting, performance e fotografia, Hiding in the City, la tua serie più celebre, trae origine da una tragedia generazionale: nel 2005, il Governo cinese ha abbattuto il quartiere degli artisti di Suojia Village, in vista delle Olimpiadi di Pechino. La fotografia del tuo “autoritratto”, immobile e quasi invisibile, trasfuso sull’epidermide delle pareti del tuo studio in macerie ha fatto il giro del mondo. Raccontami questa vicenda personale e politica.
Hanno demolito il Suojia Village International Arts Camp il 16 novembre 2005 poiché era stato costruito illegalmente. Ho iniziato, così, a inscenare azioni invisibili di camouflage e le fotografie che ne sono derivate hanno costituito una silente protesta contro una decantata riqualificazione urbana che si è rivelata cieca gentrification. Durante i Giochi Olimpici, nel 2008, l’attenzione dei media del pianeta era concentrata sulla Cina; per questa ragione lo smantellamento di Suojia Village ha destato tanto clamore: un accadimento simile ha investito l’arte e la libertà di espressione. Centinaia di artisti hanno perduto il loro atelier, sono stati privati del loro spazio di lavoro e di creazione.
Durante gli ultimi dieci anni, in che modo è cambiato lo scenario dell’arte contemporanea cinese?
Gli artisti cinesi contemporanei utilizzano strumenti e media diversi per indagare la condizione esistenziale di costante cambiamento in cui vivono e, in generale, il processo di crescita economica che sta avvenendo in Cina e le sue conseguenze a lungo termine: la questione della sicurezza alimentare, dell’energia e dell’inquinamento, per esempio. Il 2008 segna uno spartiacque nella storia e anche l’arte contemporanea cinese è cambiata da allora.
Ritualizzare il silenzio: l’assenza è una strategia artistica mutuata dal mondo naturale, dove essere capaci di mimetizzarsi equivale a resistenza e sopravvivenza della specie. L’assenza diviene un esercizio di maniera per manifestare le tue idee e la loro concreta presenza?
Secondo la cultura tradizionale cinese, l’uomo è parte della natura, ne è un prolungamento: in Hiding in the City, sembra che io scompaia ma, invece, mi dissolvo nella natura. In questa serie, per esempio, mimetizzarmi fra le rovine del mio studio d’artista ha significato superare alcuni limiti del corpo: rimanere immobile come una scultura a lungo, non mangiare né bere. È stata un’azione che ha richiesto un dispiegamento di molte energie pur di rappresentare la mia protesta, diventando un’astuta eco di visibilità per puntare i riflettori sulla difesa di un sogno: quello della libertà nell’arte.
Potremmo squadernare un lungo elenco di binomi, per esempio, presenza/assenza e persona/comunità. In che modo la tua ricerca artistica indaga le dinamiche secondo cui la società in cui viviamo plasma le nostra identità?
Quando ho iniziato il mio lavoro di artista, emozioni di abreazione riempivano la mia testa. Dopo una fase di decantazione, ho iniziato a ragionare secondo una prospettiva antropologica: presenza e assenza, controllo e libertà, tradizione e innovazione, individuale e universale. Il tempo, i luoghi e le contraddizioni in cui viviamo possono determinare le nostre identità: sta a ciascuno di noi accettare la sfida e divenire la persona che intende essere. Come artista, esprimo il mio pensiero attraverso le azioni performative e la fotografia; assolvo il mio dovere intellettuale e morale attingendo dalla società contemporanea per creare immagini.
Target nasce durante la tua esperienza umana e artistica in Sicilia, al C.A.R.A. di Mineo?
Ho iniziato a lavorare al progetto Target nel 2013, a Shandong. Nelle aree rurali della mia città, dove un tempo sorgevano terreni agricoli, sono state costruite molte industrie chimiche. La mortalità degli abitanti dei villaggi è in breve raddoppiata: sul web, c’era un gran parlare dei “Cancer Villages”. Stava accadendo nella città dove sono nato e ne ero molto scosso. Ho iniziato un nuovo progetto fotografico senza avere idea di quale sarebbe stato il suo titolo, concependolo come un’estensione della serie Hiding in the City, nei cui scatti ero stato l’unico soggetto “dipinto” a perdere i contorni all’interno del setting. Ho coinvolto un paio di quelle famiglie, una ventina di persone.
E poi cosa successe?
Un altro fatto di cronaca ha segnato la genesi di Target: nell’ottobre del 2013, per le strade di Bogotá, avvenivano frequenti attacchi terroristici di forze armate non governative contro la popolazione colombiana. Il corpo di ogni cittadino libero sembrava un bersaglio in movimento. Ho dipinto un bersaglio – Target era ufficialmente nato – sui corpi della gente di Bogotá, facendo entrare più persone nei miei scatti, in una vera e propria azione collettiva di denuncia. Quando ho fotografato i rifugiati africani, al C.A.R.A. di Mineo a Catania, due anni dopo, il leitmotiv è stato, ancora una volta, la denuncia della fine di ogni ideale di umanità.
Lo scenario della tragedia del 2013 sulla spiaggia del Lido Verde, dove, a pochi metri dal porto di Catania, annegarono sei bambini egiziani, fa da sfondo alle fotografie in mostra ai Cantieri Culturali alla Zisa: in una, Memory Day, i migranti sdraiati sulla sabbia potrebbero sembrare cadaveri del mare. In un’altra, Blue Europe, si mimetizzano nel blu della bandiera dell’Unione Europea come in una Pietà laica contemporanea. Si parla di vita e di morte?
Non importa da quale religione, etnia o Paese provengano, i migranti si mimetizzano con lo stesso sfondo monocromo e compiono un gesto di grande spiritualità: la finzione del compianto della Santa Madre sul corpo morto del Figlio. L’approdo sulle coste dell’Europa dei rifugiati africani, scampati alla traversata della morte, è il miracolo della vita e può diventare un simbolo di civiltà umana e sacra religiosità. Oggi la gente crede solo al dio del Denaro. Nel 2014, ho scattato una fotografia della serie Target, in occasione di una mostra personale a New York: un gruppo di americani si camuffa sullo sfondo di una banconota, scomparendo tra i colori del dollaro. Io non credo al denaro, credo di più nel rispetto della vita e dell’umanità.
Ricordando il body-painting rituale delle popolazioni tribali africane, hai dipinto la parola “FUTURE” sul corpo dei migranti che hanno partecipato alle performance di Target a Catania. Quali sono le speranze di queste persone che hai incontrato in Sicilia e quali le tue, come artista cinese?
“FUTURE” sul dorso nudo dei loro corpi è un afflato di speranza poiché ognuno di loro ha un sogno e lo sta inseguendo. Arrivano in Europa, dopo aver giocato, nel deserto o in mare, alla roulette russa della vita o della morte, poiché nei Paesi da cui fuggono non hanno futuro. “FUTURE”, a caratteri bianchi sulla pelle nera, è l’augurio di una vita migliore per loro e per le generazioni a seguire. Come artista cinese, lavoro a un’arte sociale che deriva dal mistero della cultura orientale tradizionale. Ma l’arte non ha frontiere: europei, americani, asiatici e africani, camminiamo insieme nell’epoca 2.0, del “Made in China”, delle tecnologie. La mia speranza è continuare a osservare criticamente la realtà del Paese reale che viviamo.
Hai spesso affermato: “Non sono io a scomparire. È la società contemporanea a inghiottirmi”. Possiamo affermare allora che l’arte non può non essere contemporanea?
Le antinomie della società contemporanea offrono grande ispirazione alla mia ricerca di artista. La sparizione del mio corpo è la mia personale strategia, il mio metodo. L’ambiente in cui viviamo determina l’arte contemporanea e viceversa: gli artisti hanno la responsabilità di trasformare la società. O, meglio, io provo a fare del mio meglio.
– Giusi Affronti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati