Jannis Kounellis, un artista di regime. Parola a Vittorio Sgarbi
A pochi giorni dalla scomparsa dell’artista, il critico e curatore ferrarese esplicita ad Artribune le proprie posizioni niente affatto in linea con la poetica, la storia e la notorietà di Jannis Kounellis. Senza risparmiare ben più di una staffilata ai colleghi della critica, complici nell’aver trasformato Kounellis in un artista fintamente incompreso.
Le sue dichiarazioni apertamente contrarie nei riguardi dell’opera di Jannis Kounellis, e dell’Arte Povera in genere, non sono un mistero. Dalla memorabile polemica attorno alla scelta dell’artista greco di ritirare la propria opera donata al Museo di Capodimonte, in segno di protesta verso l’allora sottosegretario ai Beni culturali Vittorio Sgarbi, fino alla querelle sorta attorno alla definizione di “arte escrementizia” attribuita dal critico ai lavori di Kounellis, il terreno di scontro fra l’intellettuale ferrarese e l’artista greco è stato fertile. In seguito alla scomparsa di Jannis Kounellis, Vittorio Sgarbi ha risposto alle nostre domande con un ricordo tutt’altro che compiacente di uno dei maggiori esponenti del filone poverista.
Le posizioni che lei ha assunto nei confronti dell’arte di Kounellis sono piuttosto note e definite. A fronte della recente scomparsa, quale lascito artistico crede abbia consegnato Kounellis alle generazioni presenti e future?
L’eredità di Kounellis è un edificio in rovina. Documenta in maniera perfetta un’epoca di catastrofi, di tragedie e di violenza. Quindi, oltre al tema dell’Arte Povera, che vale per il riciclaggio dei materiali, gli elementi portanti dell’opera di Kounellis anticipano il conflitto di civiltà che noi viviamo. È un’eredità negativa. La sua idea di arte equivale a una fine di civiltà, emblema di ciò che rimane dopo un bombardamento. Probabilmente ha anche una sua plausibilità, ma non è quello di cui il genere umano sentirà il bisogno.
Immagino che lei abbia avuto modo di incontrarlo di persona, dato che era fra gli artisti del suo Padiglione Italia nel 2011. Che cosa ricorda di lui dal punto di vista umano e artistico? E quali erano i vostri terreni di scontro?
Con il tempo io ho assunto posizioni polemiche non contro di lui, ma contro l’esaltazione che era stata fatta di lui. Kounellis era diventato un intoccabile e faceva pure la vittima, come se non avesse avuto sufficienti riconoscimenti. Io non ho mai visto un artista più celebrato e più di regime di Kounellis. Anche più di Guttuso, che era un artista di regime guardato con sospetto e preoccupazione dagli avanguardisti, i quali vivevano la contraddizione di un artista di sinistra – dunque del loro stesso schieramento – che aveva tutti i requisiti per essere un artista conservatore. Invece Kounellis piaceva a tutti. Nella religione ebraica, quando in un tribunale c’è una sentenza all’unanimità la si rovescia, quindi se tutti sono convinti che uno sia innocente, in realtà è colpevole.
Piaceva a tutti… Secondo lei perché?
Perché il mondo è pieno di benpensanti e conformisti. La critica è totalmente asservita al mercato. Poi i luoghi comuni sono più comodi dei luoghi difficili. Il fatto che la critica amasse tanto Kounellis resta un mistero della critica, un problema suo. In controtendenza, nel 1982, io scrissi una monografia su Domenico Gnoli; e oggi Gnoli è l’artista italiano con le quotazioni più alte. Se le sogna Kounellis. All’epoca Gnoli lo conoscevano in pochi, poi naturalmente Celant se ne è accorto e l’ha messo in qualche sua mostra. Fatto sta che oggi un dipinto di Gnoli passato all’asta per tre milioni e ottocentomila dollari ha una quotazione più alta perfino di quelle di Morandi e di de Chirico. Quindi non mi faccio certo intimidire da certa critica. Quando, nel contesto del Museo Pecci, ho definito escrementizia l’arte di Kounellis, riferendomi in realtà al significato letterale dei rifiuti, il museo la prese come un’offesa.
Quale fu la risposta alla sua dichiarazione?
La risposta fu che andava celebrato un grande artista non ancora sufficientemente riconosciuto. A dire il vero, Kounellis aveva già fatto mostre in ogni angolo d’Italia, da Gorizia fino a Mazara del Vallo. Però si sentiva incompreso. Questa mi sembrava una ragione di ironia. Romano Parmeggiani, fratello del famoso Tancredi, è stato dimenticato e avrebbe potuto dire “nessuno mi considera”, ma che lo dicesse Kounellis mi sembrava risibile. Tutti applaudivano Kounellis, nonostante il fatto che la sua opera fosse così tragica e drammatica.
Questo è un elemento importante. Credo che l’arte di Kounellis non fosse di semplice ricezione e di facile uso. Quindi come poteva essere celebrata in maniera così plateale e acritica?
Era un trombone di regime senza alternativa. Intanto era di sinistra, poi ha aderito all’Arte Povera nel 1967, poi c’è stato il ‘68. La lezione di un rovesciamento dei valori, nel suo caso, non poteva che godere di un vento favorevole. All’ospedale Mangiagalli di Milano, dove ci sono persone malate, c’è una Natività meravigliosa di Arrigo Minerbi degli Anni Trenta e, di fronte, delle teste mozzate attaccate con delle corde, che sarebbero un capolavoro di Kounellis, guardate con orrore. Il popolo non riconosce questi artisti di regime. Sono del tutto impopolari, privi della capacità di comunicare qualsiasi cosa che non sia vista con assoluta indifferenza o addirittura con ostilità, come nel caso delle teste mozze citate. Però questi artisti sono esaltati dai collezionisti, dai critici, dai mercanti, che, con le loro giacche di cachemire, sentono il dolore del mondo, mentre i clochard che stanno per strada, se vedono Kounellis, pensano a un edificio in rovina, che è poi la metafora usata da me per descrivere la sua arte.
Come mai scelse di includere Kounellis nel suo Padiglione Italia del 2011?
Quando portai Kounellis a Venezia, fui proprio io a volere che non mancasse. Quando ho chiesto ai trecento intellettuali, italiani e stranieri – come Fumaroli, Jean Clair, Umberto Eco, Ermanno Olmi – di indicarmi il nome di un artista, il suo non era emerso. Quindi l’ho chiesto ad Alda Fendi.
Allora è stato lei a volerlo.
Io sono stato dietro ad alcune scelte, perché non erano stati fatti alcuni nomi importanti come quello di Paladino. Quindi, per evitare che la loro assenza fosse considerata frutto di una mia scelta, ho chiamato amici compiacenti come Alain Elkann, che ha segnalato Paladino, e Alda Fendi, come presidente di una fondazione culturale, che ha segnalato il sudario con i chiodi di Kounellis, di sua proprietà, da lei conservato in sala da pranzo. Il mio criterio era quello di spossessarmi della mia sensibilità e chiedere a scrittori, musicisti, uomini di teatro e persone di valore e di varia umanità di segnalare l’artista ritenuto più significativo.
Perché ha desiderato includere a tutti i costi anche questi artisti “esclusi” dagli intellettuali?
Perché sono dei mostri sacri.
Consacrati dalla critica?
Sì, ma non dai pensatori veri. Fumaroli, che vale 850mila Bonito Oliva, mi ha detto: “Caro Vittorio, io non ti segnalo nessun artista perché quelli che tutti conoscono non mi piacciono e quelli che mi piacciono non li conosce nessuno”. Allora ho insistito e lui mi ha segnalato un artista che era morto da un mese, Leonardo Cremonini. Un artista che ha avuto molta meno fortuna di Kounellis, ma sarebbe piuttosto ardito dire che ha un minor valore. Perché un artista come Cremonini, nato nel 1924 e morto qualche anno fa, è totalmente dimenticato e Kounellis è un eroe?
Risponda lei.
Durante la mia giovinezza, contro i conformismi, le mie posizioni si basavano su un “aut aut”, poi si è fatto strada un “et et”. Credo che si possano esporre insieme un Merz e un Guccione, per esempio, ma negli Anni Ottanta accostare Kounellis a Gianfranco Ferroni era affiancare un titolato aristocratico, pur appartenente all’Arte Povera, e un poverino disperato. Ritengo i miei colleghi critici dei modaioli privi di ogni autonomia di pensiero, pieni di banalità. Un capostipite di questo filone è un mio allievo e si chiama Ludovico Pratesi, raccomandatomi dal nonno. Abbiamo litigato e ci siamo rappacificati, ma quando penso a un professorino con tutti i compiti preparati penso a lui. Poi ci sono quelli in mala fede come Bonami, con cui mi sono scontrato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, umiliandolo come si vede ancora su YouTube. Bonito Oliva consacra quattro pittori scelti arbitrariamente, Celant consacra l’Arte Povera. E poi ci sono grandi artisti, come Fabrizio Clerici, che hanno rischiato di essere dimenticati se non gli fosse venuto in aiuto uno scrittore libero, in questo caso Leonardo Sciascia. Come se non potesse esistere un uomo di pensiero che ha una posizione sull’arte contemporanea senza essere un critico. A sostenere i cubisti fu Apollinaire, un poeta, a sostenere Tiziano fu Pietro Aretino. Non è che il letterato non debba avere un’idea sull’arte contemporanea, e invece debba averne l’esclusiva un curatore dipendente come Bonami, per esempio, in realtà un meccanico legato a un mercato dominante. L’opinione di un osservatore autonomo, che guarda l’arte contemporanea e annota, sarà molto più libera.
Quindi è la critica a essere colpevole nei confronti di Kounellis?
Tornando all’esempio di Gnoli, oggi entrato nell’olimpo degli artisti italiani, quando io ne scrissi era un artista dimenticato. Prima di me aveva parlato di lui solo Luigi Carluccio. Su Kounellis, invece, hanno scritto cani, porci, galline, tutti dicendo che era un genio assoluto e tutti consacrandolo come, io ritengo, un artista di regime. Nessuna stroncatura significa disperazione. Un artista mai stroncato è una specie di mostro della natura, riconosciuto per puro conformismo.
Parlando di un pubblico più vasto, al di là della critica, non sempre il popolo, per riprendere una sua definizione, ha osteggiato l’arte di Kounellis. Basti pensare ai suoi interventi negli spazi urbani e alle reazioni, veicolate dai media, alla sua morte.
Forse si tratta di un popolo preparato, un popolo dell’arte. Quelli che vanno alla Biennale, 500mila individui rispetto a un popolo fatto di sessanta milioni di persone. Le persone che vanno all’ospedale Mangiagalli e che si trovano di fronte alle teste mozze di Kounellis e davanti a un capolavoro degli Anni Trenta di Arrigo Minerbi hanno reazioni ben diverse. Magari, però, ci sono vari “popoli”.
Che cosa la irrita di più di Kounellis?
Non riesco a pensare nulla di negativo su Kounellis, perché in fondo non mi dispiace. Preferirei che fosse un artista incompreso. Quello che mi irrita di Kounellis è la pompa trionfalistica che accompagna la sua impresa.
Questa pompa trionfalistica, secondo lei, è stata voluta dallo stesso Kounellis?
No, Kounellis era uno dei più talentuosi e anche più dialogici fra gli appartenenti al gruppo dell’Arte Povera, quindi è stata una formidabile impresa illusionistica di Celant, che ha individuato in questi artisti una situazione culturale particolarmente corrispondente al clima del ’67. È stata un’operazione di marketing eccezionale. Ma siccome un artista consacrato nel ’67, nel 2017 è riconosciuto da cinquant’anni, un’avanguardia che ha cinquant’anni mi sembra un po’ troppo lunga. Da avanguardisti costoro sono diventati artisti di regime. A fronte di ciò mi domando quanti artisti, nell’arco di un cinquantennio, siano stati tragicamente oscurati.
Lei dice che l’Arte Povera è vecchia e superata. Crede abbia un valore, non attuale ma storico, da salvaguardare? E come?
L’Arte Povera ha un valore storico importantissimo, quindi non si può prescindere da essa. Mi fa anche piacere, però, immaginare qualcos’altro.
Se lei fosse costretto a curare una mostra sull’Arte Povera, quali artisti includerebbe?
L’Arte Povera ha espresso un numero limitato di artisti, e ciò ha consentito a Celant di renderli gloriosi, ma non se ne possono estendere i confini. Credo che con Anselmo, Paolini, Merz, Pistoletto, e fuori campo Pascali, il nucleo originale non abbia avuto seguaci, né potesse averli. È stata una felicissima intuizione, esattamente prima del ’68, con un’Italia che era diversa rispetto a quella di oggi. Questi artisti erano indifferenti allo sconvolgimento che il Paese stava vivendo in quegli anni. Descrivevano sì la distruzione, e quindi proponevano anche una critica sociale, ma in maniera impotente e imbelle. Poi sono andati avanti e sono diventati tutti ricchi. Quindi, per fare una mostra sull’Arte Povera, si dovrebbe risalire al nucleo originale, che si muove parallelamente all’esperienza di Joseph Beuys, la cui azione, rispetto all’ambiente, è stata forse più consapevole. Non mi pare, infatti, che alcuno degli artisti dell’Arte Povera abbia realizzato qualcosa di veramente utile per difendere l’ambiente e le città. Hanno documentato in maniera molto radicale ed estrema una situazione. Hanno lavorato per il popolo standone lontano. In ogni caso, sono stati l’avanguardia più riconosciuta dopo i futuristi, anche loro non dei grandi geni.
Previsioni sul destino dell’opera di Kounellis?
La mia previsione è che dell’opera di Kounellis non resterà niente. Nell’arco di cinquant’anni sarà completamente dimenticata. Rimarranno un po’ di fotografie dei suoi interventi e un po’ di opere nelle case dei miliardari. Ricordo di una contessa a Gorizia, che, in una casa meravigliosa, era orgogliosissima di una stanza attraversata dai binari di Kounellis. Il modo migliore per rovinare una stanza settecentesca.
Che cosa rappresentava, in quel caso, l’opera di Kounellis? Uno status symbol?
Sì. Il mondo aristocratico e dei ricchi non si è risparmiato davanti all’Arte Povera.
Una contraddizione in termini.
Sì. L’Arte Povera è piaciuta. A menti deboli.
– Arianna Testino
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