Ai Weiwei arriva a New York. Grande progetto d’arte pubblica, contro la cultura dei muri
Anche Ai Weiwei si presenta in versione anti Trump. Progettando una nuova opera diffusa, per la città di New York. Ancora un lavoro sulla crisi migratoria, ragionando di barriere e recinzioni
Atista engagé per eccellenza, in tempi di globalizzazione nevrotica, di derive post capitalistiche, di retoriche populiste, di nuovi nazionalismi e xenofobie, Ai Weiwei cavalca il suo ruolo con convinzione, continuando a perseguire un’estetizzazione della politica (o una politicizzazione dell’estetica) in chiave mainstream. Lui, che sul suo destino di artista censurato – vittima del regime cinese – ci ha davvero costruito una carriera. Un po’ sfruttando la vicenda, con punte di spettacolarizzazione, un po’ facendone sincera materia di riflessione creativa.
E il tema dei migranti, ultimamente, è al centro dei suoi progetti. Dopo gli interventi in spazi aperti realizzati a Berlino, Vienna e Firenze, usando certi ready-made del dolore sottratti al dramma del Mediterraneo (gommoni e giubbotti salvagente), e prima della mostra del 23 aprile 2017 a Palermo (ancora in tema profughi e rifugiati), l’artista si prepara a un poderoso progetto, stavolta atteso a New York tra il 12 ottobre e l’11 febbraio 2018. A produrre l’evento sarà il Public Art Fund, che proprio quest’anno festeggia il suo 40° anniversario: un’organizzazione non profit nata per sostenere interventi di artisti contemporanei negli spazi pubblici di New York.
ARTE PUBBLICA, IN POLEMICA CON LA CULTURA DEI MURI
Nel caso di Ai Weiwei saranno coinvolti alcuni luoghi strategici della città, quali la Doris C. Freedman Plaza a Central Park e il Collegio Cooper Union nell’East Village, mentre altri lavori saranno allestiti sulle pensiline degli autobus. Il tema? Non poteva che riguardare la realtà dei muri, dei confini, delle recinzioni. In aperta polemica con Donald Trump e con le sue politiche isolazioniste, di chiusura e pregiudizio. Ai Weiwei sceglie ancora una volta l’argomento giusto al momento giusto, restando sul pezzo con la consueta vocazione mediatica, tra denuncia forte e show.
Il titolo, Good Fences Make Good Neighbors (“Buone recinzioni fanno buoni vicini”) arriva da un verso della poesia Mending Wall, pubblicata nel 1914 da Robert Frost. “Il recinto è sempre stato uno strumento del vocabolario politico ed evoca associazioni con parole come “confine”, “sicurezza’, “vicino”, che sono collegati all’attuale contesto politico globale. Ma ciò che è importante ricordare è che, mentre le barriere sono state utilizzate per dividerci, come esseri umani siamo tutti uguali”, ha commentato l’artista. E dalle prime indiscrezioni pare proprio che sarà il classico filo metallico, usato per le barriere di sicurezza, a diventare simbolo feroce ed eloquente di un pensiero in progressiva ascesa: la crisi migratoria, sommata a quella economica e culturale, genera nuove mitologie dell’aggressione, del controllo, della paura, della difesa. È il volto irrazionale della storia, a cui l’arte prova a fornire un contraltare. Qualche volta autenticamente, qualche altra con un gioco un po’ ruffiano.
– Helga Marsala
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