Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo. Intervista a Driant Zeneli
Incontriamo Driant Zeneli, artista, nei panni del direttore artistico di Mediterranea 18, allestita dal 4 al 9 maggio fra Tirana e Durazzo, e con un evento di inaugurazione a Bari. Il progetto coinvolge 230 artisti europei e mediterranei. Per una riflessione sul tema della casa”.
230 artisti provenienti da Albania, Austria, Bosnia Erzegovina, Croazia, Cipro, Egitto, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Italia, Kosovo, Libano, Malta, Montenegro, Marocco, San Marino, Palestina, Portogallo, Serbia, Slovenia, Turchia, Tunisia espongono insieme a Tirana in occasione di Mediterranea 18, BJCEM, la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo, in programma dal 4 al 9 maggio con il concept HISTORY + CONFLICT + DREAM + FAILURE = HOME.
“La Biennale nasce come evento nel 1985 a Barcellona. Poi nel 2001, a Sarajevo”, ci spiega Federica Candelaresi, segretario generale dell’Associazione internazionale per la BJCEM, “gli istituti che lavoravano sulla Biennale hanno deciso di dare una cornice istituzionale al tutto creando una associazione. La Biennale negli ultimi anni è diventata sicuramente l’evento di punta, ma anche parte di una serie di percorsi di collaborazione che prevede anche residenze (nel corso dell’ultimo anno in Tuscia, a cura di Marco Trulli, e in Slovenia, in Croazia). La Biennale è il culmine di un progetto di ricerca che accompagna i giovani artisti anche nella crescita”. Gli artisti, infatti, hanno dai 20 ai 35 anni e sono stati selezionati dai Paesi partner e al 50 % dai curatori coinvolti. Ci sono poi una serie di progetti collaterali, performance, installazioni, talk che fuoriescono dalla cornice generazionale e che chiamano in causa artisti anche più maturi, come Ettore Favini, che si confronta con la facciata dell’Istituto Italiano di Cultura di Tirana o Adrian Paci, coinvolto nel programma di talk.
Tra i “giovani”, invece, Fatlum Doci e Vangjush Vellahu dall’Albania, Jürgen Kleft dall’Austria, En.act Theatre Group da Cipro, Sara Hamdy dall’Egitto, Vasilis Alexandrou dalla Grecia – con il lavoro History, che va a occupare gli spazi della National Gallery, “svuotati” da opere di artisti albanesi partiti per la documenta di Atene, generando a Tirana non poche polemiche – Andrea Famà, PSM e Le sorelle di Jack dall’Italia, per citarne solo alcuni tra i moltissimi in mostra. Ma di che cosa parla la Biennale? Abbiamo approfondito il discorso con Driant Zeneli, artista anche lui, in questi giorni tra i vincitori del Premio Moroso, qui nei panni del direttore artistico.
Tirana è una città che conosci molto bene, anche se non è qui che sei nato [Zeneli è nato a Scutari, N. d. R.]: come si confronta il concept che hai ideato con il luogo in cui siamo? E come invece con la cornice europea in cui la Biennale si colloca?
Se si parla di “casa”, ognuno di noi ha la sua e percepisce il tema della casa come preferisce. La cornice generale è dunque molto ampia: ovviamente, questa Biennale non vuole parlare di che cos’è la casa, ma vuole parlare di come possiamo riconsiderarla in base alla storia, ai conflitti, ai fallimenti, ai sogni che abbiamo avuto e agli sbagli che abbiamo commesso. Quando fui invitato dal Ministro della Cultura Albanese Mirela Kumbaro fui sorpreso perché ovviamente dovevo assumere un’altra posizione, passando da artista a direttore artistico di un progetto molto grande. Però l’avventura è cominciata molto bene e insieme a un gruppo di curatori e amici che ho invitato (Jonida Turani per Arti Applicate, Maja Ciric per Arti Visive, Ema Andrea per Performance, ALA Group / Maria Rosa Sossai per Literary Creation, Alban Nimani&Rubin Beqo / Tulla Center per Musica, Eroll Bilibani per Film), provenienti dal Kosovo, dalla Serbia, dall’Albania, dall’Italia abbiamo cominciato un lavoro notevole. Ci sono anche tante persone dietro le quinte che sostengono questo progetto, addirittura oltre sessanta volontari.
Il tema della casa è inoltre molto forte per l’Albania. Penso al progetto delle “facciate” voluto dall’allora sindaco Edi Rama (oggi Primo Ministro) come “riappropriazione” del luogo intimo. Ma penso anche al quartiere del Blloku, prima luogo di chiusura e di isolamento, oggi zona della vita sociale e del divertimento…
Sicuramente la Biennale tocca diverse tematiche e questioni, partendo dal territorio dove noi “poggiamo i piedi”, l’Albania e in particolare Tirana, ma anche il Mediterraneo e l’Europa. A partire da questo un altro luogo centrale sarà la casa di Enver Hoxha, proprio nel Blloku, con interventi molto site specific. Non ci saranno spettacoli, né performance, la casa del dittatore sarà solo uno spazio di discussione e di talk.
Dentro sarà tutto spento, non si utilizzerà nulla, tutte le opere saranno installate nel giardino. Ci sarà anche un’opera di Michelangelo Pistoletto, con le sessanta sedie in movimento realizzate con Juan Sandoval che rappresentano il Mediterraneo. Sedie che partono dal “vicino di casa”, da Bari, e che sono state prodotte grazie alla Regione Puglia. E che giungono a Tirana sulla nave dove più di 300 persone, tra artisti e curatori, salgono, discutono, performano, attraversando l’Adriatico e sbarcando a Durazzo il 4 maggio in occasione dell’opening.
In questo momento storico, l’Albania è un paese “esempio” di immigrazione positiva, di integrazione, di sistema in crescita. Quale è la riflessione che un paese come l’Albania può offrire oggi in un momento in cui il tema della migrazione, delle migrazioni, è sicuramente centrale nel Mediterraneo?
Ho sempre pensato che non esistono emigranti, ma esistono viaggiatori. Nel momento in cui qualcuno mette un confine, l’altro diventa “emigrato”. Spesso si usa l’espressione “mettere le radici”: è una bella metafora, ma è anche un’affermazione pericolosa, perché le radici ce le hanno solo gli alberi, noi abbiamo i piedi. Noi ci muoviamo, siamo sempre in movimento. Oggi posso considerare la mia casa l’Italia, perché mi ha dato tanto, come mi ha dato tanto l’Albania. Ma per me l’Albania è la casa del passato, del ricordo, della nostalgia.
Quando sono in Italia, sono in un luogo in cui sto costruendo, faccio parte dei suoi difetti e della sua bellezza. Perciò il concetto di migrazione per me è molto difficile: tutto è in movimento e finché la terra gira, giriamo anche noi. È chiaro poi che nessuno si sposta perché ha il desiderio di farlo, a meno che non sia un turista.
E questi flussi sono come fiume che può creare anche dei danni. Ma questo è un tema che riguarda la politica.
La nostra Biennale vuole offrire, attraverso le opere degli artisti, spazi di riflessione sul presente, ma anche proporre delle idee nuove. Gli artisti devono smettere di essere solo in opposizione, devono costruire idee per il domani.
Quale location risponde meglio al concept?
Con questa Biennale abbiamo aperto all’arte molte nuove sedi. Tra queste, c’è l’ex Ambasciata Jugoslava, che racchiude tutte e quattro le parole chiave del progetto. Una volta fallita l’utopia dell’ex Jugoslavia, che metteva insieme diverse culture ed etnie, questo spazio si è svuotato ed è stato abbandonato. Questa location non parla solo dell’Albania, ma parla della questione politica balcanica ed europea in generale. Stiamo cercando di riportare luce in questo luogo con l’obiettivo che un domani rimanga a Tirana uno spazio per l’arte e per la cultura. È una emergenza ormai. Tirana ha una grande energia, ci sono tanti giovani, ma non esiste ancora una Kunsthaus a questi dedicata. Non bisogna fare solo le biennali che hanno un valore episodico, ma bisogna costruire qualche cosa.
A proposito di questi giovani, come hanno risposto al tema? Che idea ti sei fatto di questa nuova generazione di artisti (spesso addirittura ventenni)?
Questa è una Biennale più da trampolino che da conferma. Dove l’errore è permesso. Guardando ai giovani artisti è stato molto affascinante vedere come hanno risposto al tema: alcuni hanno parlato della casa come luogo intimo e della memoria, altri della casa come luogo virtuale, altri di questioni sociali, di convivenze, di utopie e di fallimenti.
Cosa pensi degli artisti che fanno i curatori?
Non ho mai pensato che i curatori siano troppi. Penso, dopo questa esperienza, che è bello che ognuno faccia il suo lavoro. Siamo una costellazione che deve lavorare in comunità, a ogni modo dopo questa avventura torno a fare l’artista!
E se i curatori facessero gli artisti?
Possono farlo, l’importante è che si sentano tali.
– Santa Nastro
www.bjcem.org/mediterranea-18-selected-artists/
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