Biennale di Venezia. L’editoriale di Giorgio Verzotti
Continuano le riflessioni a caldo sulla Biennale veneziana di Christine Macel. Stavolta Giorgio Verzotti ne mette in luce il carattere omologato e poco coraggioso, ben distante da quanto promette la Documenta di Kassel.
Non credo che questa edizione della Biennale di Venezia, Viva Arte Viva, passerà alla storia, dato che si presenta fin dall’inizio come una rassegna omologata, in tutto uguale a tante altre aperte in giro per il mondo (ce ne sono più di cento di Biennali, vero?). Questa Christine Macel, responsabile anche di un Padiglione Francia qualche Biennale fa, deve evidentemente fare carriera e ha pensato bene di presentarsi sulla scena mondiale con quelle che secondo lei sono le carte in regola. Abbiamo visto alla Triennale di Milano la mostra di Gioni, la prima tappa di Documenta ad Atene e poi vedremo Kassel, la rassegna veneziana vale come una versione più modaiola e meno coraggiosa dell’attuale trend internazionale, col problema, valido anche per tutte le altre occasioni, che fra sei mesi buona parte degli artisti presentati ce li saremo dimenticati. Le motivazioni di Macel sono abbastanza fumose e valide sotto tutte le latitudini. Come spesso succede nelle grandi rassegne (ma non a Kassel), non saranno i saggi in catalogo a fare testo, a dare indicazioni per capire dove sta andando l’arte mondiale, anche perché tenerle dietro è affare sempre più complicato e bisognerebbe studiare…
I PRO E I CONTRO
Cose positive ovviamente ce ne sono, non è una brutta Biennale questa. Interessante creare zone tematiche, quella sull’otium-negotium si apre con una installazione-worshop di Olafur Eliasson, dove in tempo reale un gruppo di rifugiati realizza collettivamente lampade che si possono acquistare, progettate da un collaboratore dell’artista che non c’è più. Mi sembra un’idea bellissima. Bello anche il padiglione delle collaborazioni, e quello sul dionisiaco gestito dalle donne. Deludente, ed è dir poco, quello sul colore, con Guarneri spento quant’altri mai e due grandi deludentissimi teli di Griffa per non parlare dei puff colorati in fondo all’Arsenale che sembrano una presa in giro (anche se ci si è seduto Franceschini). Quanto ai nomi noti, bella la sala-omaggio a Raymond Hains, bellissime le stoffe ricamate di Maria Lai, bello anche ritrovare Gabriel Orozco in perfetta forma, e Leonor Antunes, ed Ernesto Neto, e Kiki Smith. Deludono invece Carla Black, che pochi anni fa sembrava la nuova star scozzese, Daria Halprin, che poteva stare a casa a fare le sue danze apotropaiche, Parreno che proprio non se ne può più.
LA VITTORIA DI CUOGHI
In generale, è sempre interessante vedere molti artisti poco conosciuti e provenienti da tutto il mondo globalizzato, ma, come dicevo prima, sappiamo già che Kassel promette più ardimento e più informazione.
E poi quest’anno non c’è storia, la Biennale di Venezia 2017 è il Padiglione tedesco e soprattutto Roberto Cuoghi, che con la sua Imitazione di Cristo se li mangia tutti, anche se una pavida giuria internazionale non l’ha gratificato neanche di una menzione.
– Giorgio Verzotti
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