Biennale di Venezia. L’editoriale di Renato Barilli

Il critico bolognese esprime un parere positivo sulla Biennale curata da Christine Macel. Premiando un taglio curatoriale finalmente “globalizzato” e la scelta di un andamento rizomatico, che avvolge e un po’ imprigiona.

Decisamente mi sento di dare un giudizio positivo, per questa Biennale d’Arte di Venezia, 57esima in una gloriosa successione, curata dalla francese Christine Macel, che è riuscita davvero a fare una mostra di “Arte viva”, come da programma, e finalmente “globalizzata”, dove cioè i Paesi forti dell’Occidente fanno un passo indietro a favore di tanti Paesi emergenti del pianeta. Ci sono validi recuperi di artisti già deceduti, mentre prevale una partecipazione di pressoché sconosciuti trentenni-quarantenni. Tutto bene, a patto di liberarsi dalle sezioni proposte dalla curatrice, per lo più generiche e pleonastiche, e lasciarci invece guidare dalle famiglie stilistiche, che ci sono, e riconoscibili, anche se per inseguirle bisogna zigzagare di qua e di là, tra il Padiglione Centrale ai Giardini e le interminabili Corderie all’Arsenale.

57. Biennale di Venezia, Giardini, Olafur Eliasson e Edi Rama, ph. Irene Fanizza

57. Biennale di Venezia, Giardini, Olafur Eliasson e Edi Rama, ph. Irene Fanizza

IL PADIGLIONE CENTRALE

Non si parte bene, con un Olafur Eliasson, danese, 1967, ben noto come utilizzatore di luci laser e altri strumenti sottili e penetranti, mentre qui si fa professorino per una classe di diligenti scolari chiamati a comporre dei volumi geometrici. Ma per fortuna nella parete di fondo salta fuori un albanese, Edi Rama, 1964, a proporci una carta da parati con policrome, festose decalcomanie. E anche nel corridoio di lato a sinistra sembra quasi che si voglia rispettare la consegna di dedicarlo ai libri, ma per fortuna il già defunto John Latham, dello Zambia, li brucia, quasi al seguito del nostro Burri, e, al centro, il cinese Geng Janyi (1962) ne allaga le pagine facendo prevalere un morbido monocolore. Accanto, un cittadino degli Emirati Arabi, Hassan Sharif, anche lui già scomparso, accumula un gioioso archivio di tutte le cianfrusaglie di casa. Ma affrettiamoci a guadagnare il soppalco che domina tutta la prima parte della mostra, dove trova posto una grande presenza, il francese Raymond Hains (1926-2005), compagno del nostro Rotella e dell’ancora vivente Villéglé nel condurre l’operazione décollage, nel quadro del Nouveau Réalisme di Pierre Restany, solo che Hains è più curioso e sperimentale, rispetto ai colleghi, e così inventa anche una forma di scrittura in cui i caratteri tremolano, divenendo indecifrabili, mentre lui stesso, da una foto, ci guarda beffardo armato di una ramazza che gli serviva per accumulare ogni detrito casalingo.
Scendendo dal quel podio, e portandoci al centro del Padiglione, ecco Kiki Smith, statunitense, 1954, che si pone alla testa di un ritorno al disegno e alla figurazione. Caso mai, la Macel avrebbe dovuto avere il coraggio di tematizzare questo fenomeno ormai incalzante. La Smith ci dà come degli incunaboli, da cui, raschiando, emergono dei tremolanti profili di figure intere. Al seguito di Kiki ci possono stare il siriano Marwan, 1934, che i ritratti li dipinge davvero, cupi, spigolosi, o il ceco Lubos Pliny, 1961, che invece li imbroglia e quasi li cancella, pur lasciandoli trasparire. Beninteso, questo ritorno alla pittura non abbandona le grucce di sostegno fornite dalla foto e dal video, come dimostra la canadese Hajra Waheed, 1980, che infatti ci dà sia un serie di cartoline dense, quasi affogate nella pittura, sia, accanto, i loro equivalenti in foto.

57. Biennale di Venezia, Arsenale, Ernesto Neto, ph. Andrea Ferro

57. Biennale di Venezia, Arsenale, Ernesto Neto, ph. Andrea Ferro

L’ARSENALE

Ma rechiamoci pure alle Corderie, dove la rassegna si sviluppa per due terzi. E rendiamo subito omaggio a Maria Lai (1919-2013), quasi dimenticata in vita, mentre questa sarda, fedele alle memorie ataviche della sua isola, ne ha ricavato un resistente e indomito “racconto del filo”, come brava massaia che con l’aiuto di robuste cordicelle tiene insieme quaderni sgangherati di memorie, e tanti altri reperti domestici. Da lei quel filo si allunga in tanti sviluppi, c’è magari chi ne ricava dei gomitoli che infigge a parete, vedi Lee Mingwei, 1964, da Taiwan. Ma a proposito di indicazioni stilistiche, il ricavare appunto gomitoli, o palloncini, o comunque sferule, corpi arrotondati è una soluzione che pullula nelle sale, alcuni li fanno piccoli, altri invece grandi. Chi prendesse la rincorsa per coprire tutto d’un fiato il lungo corridoio dell’Arsenale, troverebbe una soffice sponda nei cuscini sgargianti di tinte vivaci apprestati dalla statunitense Judith Scott, 1934. A fermarsi però a metà percorso, si incontra un grande protagonista, il brasiliano Ernesto Neto, 1964, che a sfida delle liane della foresta amazzonica ricava, con materiali sintetici, una sorta di gabbia a maglie larghe, dove si può entrare come in una comoda abitazione. Accanto a lui, la portoghese Eleonor Antunes (1972) si vale invece di lunghi filamenti calanti dall’alto. Da tutto ciò viene anche l’affermazione di una tipologia di grafismi leggeri, intricati, a sfida dei tessuti vegetali, e a questa insegna potremmo accomunare la partecipazione di tre nostri esponenti, Irma Blank, 1934, Riccardo Guarneri, 1933, Giorgio Griffa, 1936.
Nel segno dell’alleanza tra l’uomo e i vegetali incontriamo un’altra presenza eccezionale, quella del francese Michel Blazy, 1966, che fa scaturire delicate pianticelle di fiori da rozze scarpe da ginnastica. Insomma, è una Biennale dell’intrico, del soffice, di un rizoma che afferra a imprigiona.

Renato Barilli

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Renato Barilli

Renato Barilli

Renato Barilli, nato nel 1935, professore emerito presso l’Università di Bologna, ha svolto una lunga carriera insegnando Fenomenologia degli stili al corso DAMS. I suoi interessi, muovendo dall’estetica, sono andati sia alla critica letteraria che alla critica d’arte. È autore…

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