Biennale di Venezia. L’editoriale di Roberto Ago
Nuovo commento alla Biennale di Christine Macel. Roberto Ago propone una lettura del Padiglione Italia fuori dal coro. Individuandone le mancanze, mettendo in discussione l’opera di Roberto Cuoghi e premiando le riflessioni acquatiche di Giorgio Andreotta Calò.
La mostra alla Biennale di Venezia 2017 a cura di Christine Macel, dal goffo titolo Viva Arte Viva, a parte qualche guizzo isolato, risulta nell’insieme statica, decorativa e maldestra. Poiché è già stata sufficientemente radiografata da numerosi commentatori, non sempre lusinghieri, non mi pare ci sia altro da aggiungere.
Invece, l’evento – e sottolineo il carattere “epifanico” che inevitabilmente ha assunto – di un Padiglione Italia finalmente dignitoso ha disinnescato alla nascita ogni giudizio distaccato, ponderato e un minimo articolato. In una parola: tecnico. Vorrei evitare così di unirmi al peana entusiastico che lo ha accolto e al quale aderisco solo in parte – certamente elogiando l’operato di Cecilia Alemani, e anzi le si consegni fin d’ora la candidatura honoris causa a Capitano della prossima Biennale –, per procedere a un’analisi fuori dai cori.
Tutto appare chiaro e trasparente, a chi solo abbia gli occhi sufficientemente limpidi per vedere una verità francescana: il curatore italiano che si formi all’estero, e forse solo quello che si formi all’estero, ancora meglio se nel consesso della curatela italiana d’esportazione, tra le migliori al mondo, è garanzia quasi automatica di professionalità. Date la prossima edizione se non alla Alemani, ad Andrea Bellini o a Vincenzo De Bellis, e state sicuri del risultato. Beninteso, chiunque mastichi qualità – e dignità – fuori dall’Italia è papabile, semplicemente perché non farebbe troppa fatica a confezionare un Padiglione tricolore tarato sugli standard internazionali. Qui stanno il pregio e il limite del Padiglione di Alemani, naturalmente. Se l’adesione al canone è stata garantita, ciò che difetta è la sperimentazione non allineata o anche semplicemente un suo avatar. Va detto, infatti, che se il “lapsus” della novità informa la temperie artistica globale di inizio millennio, dalla quale sembra impossibile sfuggire, è anche vero che i manierismi sono molteplici e che dunque confezionare una mostra meno educata e anacronistica sarebbe stato possibile.
UN PADIGLIONE RITROVATO
L’eccezionalità di un Padiglione ritrovato ha compromesso un giudizio analitico ponderato anche sulle prove dei tre artisti selezionati: Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Poiché si può considerare come meramente illustrativa del tema della mostra (Il mondo magico) la pretestuosa – oltre che di per sé scolastica – videoinstallazione di Husni-Bey (The Reading / La Seduta), utile più che altro a controbilanciare la massiccia presenza scultorea dei suoi compagni di avventura – se quello era l’intento, perché non assoldare il realismo straniante di uno Yuri Ancarani? –, mi concentrerò sul versante plastico dell’esposizione.
I LIMITI DI CUOGHI
La generosa installazione di Efesto-Cuoghi, come giustamente l’ha ribattezzato Gian Maria Tosatti, è certamente di forte impatto, specie per le pupille più impressionabili. Il tema di una Imitatio Christi affidata all’argilla perenne dell’arte, datata a un’agape pre-crocifisso e declinata in chiave antropo-poietica, è sicuramente indovinato, un po’ meno la scelta di esordire in una mostra-mondo come la Biennale. Stavolta, occorre ammettere, oltre al fabbro sacro del National Geographic assistiamo a un Cuoghi di spessore concettuale; la sensazione limitrofa, tuttavia, è che nonostante l’originale e direi addirittura geniale iconografia di una fucina cristo-adamitica e prometeica, un’estetica da set televisivo ci metta lo zampino, e allora sarebbe stato più audace e perfino obbligato tematizzarla in quella direzione con cinica consapevolezza – à la Simon Fujiwara, per intenderci. Invece, la mera finzione del circo veneziano dell’arte ha reso il tutto fatalmente posticcio.
Venendo ai singoli costituenti, la serra di plastica semi-trasparente, qui adibita a scenografico tempio dell’antropo-tecnica, sa troppo di deja-vù o troppo poco di plagio citazionista, tipo appropriazione indebita di un Carsten Höller. Non meno inflazionate appaiono le forme del contenuto: da Mark Manders a Pawel Althamer, per limitarci alle due eco più lampanti, occorre rilevare come nessuna identità stilistica alternativa segni questi poveri cristi. Siccome Cuoghi è scultore, e non un calcolato artista concettuale come appunto Fujiwara, il quale avrebbe potuto rovesciare a proprio vantaggio una mimesi anonima e impersonale, la cosa fa problema.
Ora Cuoghi, nonostante possa suggerirsi il contrario, nell’insieme del suo percorso artistico è stilisticamente ben riconoscibile. Semmai, è lo spessore concettuale a fargli difetto. Così una volta appare esteticamente convincente, ma parco di idee (vedi l’ultima grande personale al CAC di Ginevra), un’altra concettualmente ispirato, ma senza padroneggiare la novità e per giunta trascurato nell’esecuzione (qui a Venezia), mai che si assista a uno spettacolo combinato di tutte le prerogative. Non resta che attendere fiduciosi un ulteriore salto di qualità che sancisca l’avvenuta integrazione in quello che indubbiamente è un formidabile artigiano.
ANDREOTTA CALÒ E LA FEDELTÀ ALL’ACQUA
Il più sofisticato Andreotta Calò, quando vuole, pure è ben riconoscibile, e questa è condizione necessaria per la buona arte, il suo a priori addirittura. Quella del Padiglione Italia è una di queste volte sia nel senso della necessità, sia in quello della sufficienza (e ben oltre). La sua installazione allo specchio è magistrale, e ci consegna nientemeno che la chiglia affondata della Nave celeste. Che crolli il tetto della cattedrale o emerga il fondo dell’Ade, non fa differenza, l’abisso sta tutto in tale indecidibilità. Senza Titolo (La fine del mondo): un piano di costruzione per un piano di decostruzione, un interstizio minimo per un massimo di comprensione, un occhio rapace per i nostri sguardi da gallina e una clessidra immobile per il tempo che fugge. Tutto questo e altro ancora ci consegna questa polisemica apparizione.
Anche nel caso di Talete-Calò, c’è un però. L’artista ci riporta, non a caso nella sua Venezia, non alla polvere del sepolcro ma all’elemento primigenio, all’arché. La sua semi-fedeltà alle acque è prossima a quella, al contrario inconcussa, di Penone nei confronti degli arbusti. Poiché squadra che vince non si cambia, il meno che si possa suggerire a Calò è di tenere sufficientemente a freno le tentazioni “in secco”, cui pure a volte indulge, restando fedele alle origini. E se proprio deve, si limiti alle tentazioni empedoclee, lasciando al palo lo stile internazionale della doxa.
– Roberto Ago
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati