Artisti da copertina. Parola a Federico Tosi
Si rinnova l’appuntamento con le interviste agli autori che firmano le copertine di Artribune Magazine. A parlare qui sotto è Federico Tosi, classe 1988. È lui ad aver messo tre ossi scolpiti sulla nostra cover, quasi un contrappunto al titolo della Biennale 2017, “Viva Arte Viva”…
Classe 1988, studi all’Accademia di Brera, un’ossessione per le tecniche, per i materiali disparati e per i dettagli, Federico Tosi impiega fino a tre anni per realizzare le sue opere, di cui butta il 90%. Ha avuto un’infanzia serena, eppure riesce a creare atmosfere cupe e sinistre. I suoi lavori sono molto distanti da un approccio forzatamente criptico e citazionistico, perché, ci dice, “a me piace che ogni persona possa guardare e capire delle cose… e non vedo perché dire qualcosa che il mio interlocutore rischierebbe di non capire”.
Che musica ascolti?
Ascolto colonne sonore.
I luoghi che ti affascinano.
Quelli con le scimmie.
Le pellicole più amate.
Apocalypto di Mel Gibson e La dolce vita di Federico Fellini.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Cambiano spesso.
Partirei da una variabile che mi sembra rilevante nel tuo lavoro: il tempo. Impieghi mesi per realizzare i tuoi lavori, fino a tre anni. Spesso li modifichi più volte in corso d’opera.
Sì, di solito è perché sono lento, mi distraggo. A volte ripesco dei pezzi vecchi perché ho migliorato una tecnica e voglio perfezionarli, altre volte “spacco” dei work in progress per prenderne delle parti. Butto il 90% di quello che faccio, il che richiede tempo.
Un altro aspetto che mi ha colpito è la ricerca disparata dei materiali (resine, silicone, oro, cemento, erba artificiale, marmo, olio per massaggi, latex, cioccolato bianco…) e l’utilizzo di tante tecniche.
Penso che ogni oggetto abbia delle esigenze e ogni materiale porti con sé tantissime informazioni che, innestandosi con l’idea, vanno a creare il presupposto per lasciare interagire significato e significante. Devi sentirli che s’incastrano per dire: “Ok, questo è un dialogo tra materia e pensiero che mi piace, è un’addizione che dà un risultato in eccesso, mi piace da morire”.
Apparentemente le tue sculture – penso in particolare ai tuoi piccoli Rotten Bullshit – hanno un côté giocoso. In realtà a me sono sembrate piuttosto inquietanti.
Ho avuto un’infanzia serena, nessun trauma particolare, genitori che si amano e che mi hanno sempre lasciato scegliere, dall’istruzione alla religione. Questo mi ha permesso di sondare luoghi bui senza esserne contagiato e senza mai crederci veramente. Dal mio punto di vista, l’autolisi è la chiave di volta che ci racconta quanto siamo un tutt’uno con questo luogo, di come i batteri che ci proteggono da vivi sono pronti a divorarci da morti. È un pensiero che mi tranquillizza. Nella serie Rotten Bullshit ho voluto idealizzare il momento più alto della decomposizione, costruendo un immaginario che fungesse da action figure iperdettagliata e superestetizzante. È un esercizio di stile della serie: “Guarda mamma, vado senza mani!”.
Cultura alta e cultura popolare. Le combini, sempre. Che cosa t’interessa di questo cortocircuito?
Voglio che tutti capiscano un oggetto, mi viene naturale. Ci sono stati dei momenti della storia dell’arte in cui la faccenda è diventata inaccessibile a un pubblico che non fosse più che formato. In altri momenti l’arte si è aperta come una Pepsi. Tutti hanno bevuto stronzate e ci si sono fatti la t-shirt. A me piace che ogni persona possa guardare e capire delle cose. È un discorso di possibilità da esperire, e non vedo perché dire qualcosa che il mio interlocutore rischierebbe di non capire.
Origine, storia, conservazione.
Ragionando a livello cosmologico, se si parla di conservazione, mi viene il magone. Fidia diventerà pulviscolo interstellare che andrà a impattare su un altro pianeta. E magari è già successo un milione di volte. Il nostro tempo è breve, ma cerchiamo di costruire cose che durino, perché io!io!io! non ne vuol sapere di dover sparire. Se restringiamo il campo e guardiamo l’impero degli uomini, allora facciamo “wow!” e vogliamo preservare tutto, anche a costo di snaturare e mettere sotto teca, ingaggiare un team di restauratori e farti pagare il biglietto.
Fino al 10 giugno hai una mostra a Torino da Almanac Inn, dove esponi tre lavori nuovi.
Sì, e credo sia una mostra un po’ cupa. È una sorta di esclamazione su quanto la nostra presenza fisica abbia deformato i confini delle cose, sia esterne che interne alla nostra mente, in una mescolanza di tempi antichi e recenti che si legano artificiosamente. Gli elementi in mostra sono come due contrari che si oppongono e si sostentano allo stesso tempo. Da un lato la mimesi di un grosso fossile realizzato in cemento, interamente inventato, che riporta segni di intemperie creati di pura fantasia, e dall’altro un’installazione fatta di ossa scolpite che raccontano della nostra interazione così invadente con la realtà da deformare i limiti dell’Antropocene stesso.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
È l’alternativa a un’immagine che non è stata accettata come prima proposta.
– Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37
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