Autocritica sull’arte africana. A Milano
Prosegue l’indagine di FM Centro per l’arte contemporanea sull’arte al di fuori dei canoni modernisti occidentali. Dopo “Modernità non allineata”, la sede milanese presenta una mostra che indaga lo sguardo occidentale sull’arte africana nel corso del Novecento.
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Approcciarsi all’arte africana è un’operazione complicata per via delle numerose sfumature ed etichette che una definizione così ampia e labile si porta dietro. Non è possibile fare una ricognizione completa su questa categoria artistica, proprio perché l’identità culturale africana è troppo complessa, troppo ampia, tanto da fuoriuscire dal suo stesso continente, e perché ancora vittima, troppo spesso, di quel fascino etnico che ne semplifica la reale portata culturale.
Per tali ragioni il discorso mostrato nell’esposizione Il Cacciatore Bianco è diverso: si tratta di prendere le distanze da un sguardo occidentale che nella storia ha avuto una sua evoluzione ma che non ha mai cambiato effettivamente la sua prospettiva. L’operazione alla base di questa mostra è stata quella di sommare – attraverso un percorso storico, critico e visuale – la questione dell’arte africana vista e ricostruita secondo modalità occidentali e restituita all’interno dell’esposizione con una serie di piccole mostre. Queste idee sono presenti fin dall’ingresso, trasformato in una “tipica capanna africana” da Pascale Marthine Tayou. Il percorso prosegue con delle scansioni fortemente cronologiche, a cominciare dalla prima ondata di colonialismo presentata attraverso i lavori Kader Attia, Sammy Baloji, Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi e Peter Friedl.
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Il cacciatore bianco. Pascale Marthine Tayou. FM-Frigoriferi Milanesi, Milano 2017. Photo Daniele Pio Marzorati
PERCORSI CRITICI
L’esposizione prosegue con la ricostruzione della sala di “Negro art” presentata alla Biennale di Venezia del 1922, lo stesso anno in cui Mussolini assume il potere; e finisce con una piccola riproposizione della mostra Le magiciens de la Terre tenutasi al Centre Pompidou nel 1989. Il percorso espositivo a questo punto assume un carattere diverso, per cui la prospettiva occidentale riversata sull’arte africana è rielaborata dagli stessi artisti presenti con le loro opere e che, a partire dagli Anni Novanta, muovono contro la proposta elaborata dalla mostra del Centre Pompidou del 1989 con i lavori di William Kentdrige, Kendell Geers e Moshekwa Langa.
Il percorso critico prosegue con l’indagine sulla costruzione dell’autorappresentazione nelle opere di Rashid Johnson e Lynette Yiadom-Boakye per concludersi con una serie di riflessioni sulla contaminazione culturale tra Nord e Sud e le sue ripercussioni all’interno della costruzione di una nuova identità, veicolata dal ripristino di una memoria storica a cui contemporaneamente si è innestata una nuova ondata di colonialismo. Una complessità socio-politica-culturale rappresentata in mostra da Guy Tillim, Robin Rhode, Ibrahim Mahama, El Anatsui, Wangechi Mutu, Meschac Gaba.
– Dario Moalli
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