Un viaggio senza confini. A Roma
Fondazione Pastificio Cerere, Roma – fino al 13 maggio 2017. “Fluid Journey” è una riflessione sullo spazio “come un punto di vista interpretativo sul mondo” che parte dalla teoria socio-spaziale di Henri Lefebvre e che diventa il punto focale di un viaggio fluido. Tra opere che disegnano una possibile cartografia incompleta e in continuo divenire.
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La mostra si apre sul cortile del Pastificio Cerere con un’opera fotografica di Alterazioni Video, che fa parte della serie African tourist e con due striscioni di Julian D’Angiolillo connessi a un suo precedente progetto legato alla costruzione di Antropolis, a Buenos Aires: un’opera d’arte partecipata, creata dalle persone che avevano lavorato alla costruzione di Tecnopolis, utilizzando gli stessi materiali di recupero del parco tecnologico.
Da Buenos Aires all’Etiopia, dal Ghana a Napoli e Marsiglia fino a Roma, per raccontare nuovi modi di abitare che determinano una nuova identità e diverse direzioni di senso. A questo proposito Pulizia di Younes Baba-Ali mette in discussione le politiche migratorie italiane: una fittizia impresa di pulizia, composta perlopiù da migranti, è intenta a ripulire la stazione ferroviaria di Napoli-Mergellina indossando un camice con un logo che ricalca quello della polizia italiana.
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Maj Hasager, Notes on futurism, migration and a lost utopia, 2014-2015. Installation view at Fondazione Pastificio Cerere. Photo Pierpaolo Lo Giudice
GLI ARTISTI
La mostra si compone di materiali che spaziano dall’audiovisivo al suono, dall’immagine fotografica ai collage, disegni e progetti. L’ultima sala ospita quattro video: due dal carattere documentativo, come nel caso di Maj Hasager e Ibrahim Mahama, uno più legato al linguaggio della videoarte, quello di Anna Raimondo, e il visionario “turbofilm” di Alterazioni Video, che assume i caratteri di un videoclip.
La ricerca di Maj Hasager nasce in occasione della sua permanenza a Roma presso Qwatz, nel 2014. L’artista prende in considerazione l’utopia ipotizzata dall’architettura razionalista, per arrivare alla sua evoluzione attuale, focalizzando lo sguardo su una comunità filippina che risiede all’EUR. L’articolata operazione di Ibrahim Mahama narra la diversa destinazione d’uso dei sacchi di juta prodotti nel Sud-Est asiatico ed esportati in Ghana per il confezionamento dei semi di cacao, riutilizzati successivamente per il trasporto del carbone prima di essere inseriti nel contesto di una installazione artistica monumentale.
L’elemento marino accomuna le due opere di Anna Raimondo presenti in mostra, entrambe evocano il movimento delle onde in un processo ciclico che indaga la decostruzione dell’identità.
Ambaradan è il “turbofilm” girato da Alterazioni Video in Etiopia, coinvolgendo le tribù travolte dalla costruzione della megadiga Gibe III, che ha chiuso il fiume Omo lasciando duecentomila indigeni ad affrontare la carenza di cibo e il reinsediamento forzato. Gli abitanti del villaggio cantano un pezzo hip hop davanti a un green screen che è stato sostituito in fase di montaggio con le immagini fotografiche della Gibe III.
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Anna Raimondo, La vie en bleu, 2012. Installation view at Fondazione Pastificio Cerere. Photo Pierpaolo Lo Giudice
IL SIMPOSIO
“Really change is never just a project”, commenta Niels Righolt (managing director presso DCAI/CKI – Danish Centre of Arts & Intreculture). Il suo discorso, dal carattere incisivo, avviene durante il Symposium di Fluid Jouney tenutosi al MLAC – Museo Laboratorio di arte Contemporanea di Roma: una conversazione amichevole tra artisti, curatori, e personaggi autorevoli, chiamati per discutere sull’effettiva necessità di un’azione artistica che possa portare un cambiamento. Gli argomenti discussi partono dalle tematiche affrontate dagli artisti nei lavori in mostra ed esplorano i territori della storia, passata e contemporanea, e i drammi con i quali l’umanità si ritrova a fare i conti. Lodevole a tal proposito l’intervento di Jean-Leonard Touadì (docente di Geografia e dello Sviluppo in Africa) che si sofferma sull’importanza dell’intercultura, creando un ponte tra la storia della schiavitù africana e la più contemporanea difesa dell’identità di un popolo che protegge i propri confini innalzando muraglie.
Ma chi siamo noi se non “il frutto di un processo collettivo, dell’incontro e dello scontro, delle contraddizioni e delle diversità sociali”?
– Donatella Giordano
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