Armati di petali. Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi nella terra dei fuochi
Trasformare la terra dei fuochi nella terra dei fiori. Questo l’ambizioso progetto del duo Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi, che alla Reggia di Caserta inaugurano questo fine settimana una mostra con performance. Un invito alla speranza per un territorio problematico e abbandonato dalle istituzioni. Abbiamo ascoltato le loro voci, in dialogo con il curatore Daniele Capra.
Il progetto La terra dei fiori propone una contro-mitologia rispetto ai luoghi della Campania che sono stati al centro delle cronache giudiziarie degli ultimi anni per le tragiche questioni ambientali e criminali. Luoghi che hanno visto cedere alla malavita la completa gestione del territorio, in cui lo Stato ha abdicato e i cittadini hanno convenuto di essere assenti, di non vedere o non sapere. E invece i fiori, con cui siete vestiti nelle performance e nei ritratti, suggeriscono altre mitologie.
Il fiore trasforma, anima e nasconde. Rappresenta l’immagine della vita, della rinascita e del ciclo stagionale. È emblema anche della fragilità del mondo in cui viviamo. Occultare la propria identità con un velo di fiori, come avviene negli scatti fotografici, è un gesto insieme poetico e politico: è l’esaltazione di tutte le diversità civili, ideologiche, religiose e sessuali. Nelle nostre opere il fiore è un canto alla pluralità, è un elemento naturale sinestetico che può essere seducente e al contempo inquietante.
È dagli Anni Sessanta che il fiore è diventato un dispositivo politico, il simbolo di una lotta pacifica portata avanti dai movimenti studenteschi e dalla controcultura hippie. Allen Ginsberg teorizzò in un famoso articolo di usare masse di fiori per creare delle barricate da opporre alla polizia. Ai soldati schierati si offriva così un fiore, o lo si infilava dentro la canna dei loro fucili. Ma il fiore non è l’unico elemento che ricorre ne La terra dei fiori…
Nel progetto sono centrali il cavallo, i bardatori e i solidi platonici – simboli rispettivamente della forza, dell’amicizia e della memoria, degli elementi costitutivi del cosmo – che vengono ritratti in luoghi significativi come ad esempio la spiaggia di Sampieri, nella costa sud orientale della Sicilia, in cui si sono arenati corpi di uomini senza più speranza, di disperati provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.
Questa è una mostra politica, in maniera anche inaspettata. È una mostra che chiede di prendere posizione e cominciare a sperare. Gramsci diceva di odiare gli indifferenti perché “l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita”. Non essere indifferenti vuol dire non giustificarsi con il “piagnisteo da eterni innocenti”. Cosa vuol dire per voi impegnarsi?
Per noi l’impegno politico è sempre stato una necessità, a partire dalle azioni di attivismo civile quotidiano che portiamo avanti a Scicli, nella nostra città. Lì ci siamo impegnati a riattivare degli spazi abbandonati o deturpati prendendocene cura, sistemandoli e rimettendoli poi al centro dell’attenzione della collettività. Era necessario far rivivere luoghi che erano ritagli di memoria di cui spesso gli stessi abitanti non erano a conoscenza. Questi progetti hanno invece immaginato dei contenuti per quei luoghi e hanno aperto connessioni, stabilito legami tra artisti, curatori, performer, intellettuali e cittadini. I quali hanno avuto l’opportunità di misurarsi, anche in forma casuale, con qualcosa di inatteso, come il pensiero o l’arte dei nostri giorni.
Mi chiedo spesso quale sia la funzione dell’arte contemporanea, abbagliato dalla continua e vorticosa tendenza a fare eventi, alla ricerca della spettacolarità o dell’effetto. Ho come la sensazione che molti artisti abbiano abdicato alle potenzialità intellettuali e civili del loro lavoro, accettando di fare i semplici (depotenziati) decoratori. L’arte è troppo spesso veicolata come un intrattenimento che riempie il vuoto tra una serie televisiva, un acquisto al centro commerciale e un post su Instagram.
Crediamo che l’arte serva a tenere vivo il pensiero critico, a portare lo spettatore a farsi delle domande anche scomode o che si vorrebbero ignorare. Il nostro intento è di entrare nella vita delle persone spingendole a prendere posizione, ad alzare l’asticella dei contenuti e della moralità. L’arte ha la missione di dare degli strumenti interpretativi per sottrarsi al conformismo o alla mediocrità. E deve suggerire l’utopia di una possibile via di salvezza.
– Daniele Capra
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati