Massimiliano Gioni e la Terra senza pace. A Milano
La Triennale, Milano – fino al 20 agosto 2017. Oltre sessantacinque artiste e artisti provenienti, fra gli altri, da Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia, mostrano l’uomo all’umanità. All’interno di una mostra che si estende fra la galleria al piano terra della Triennale e il piano superiore.
I primi due scorci figurativi de La Terra Inquieta sono Beyond Ruins (2016) e Ruins Ahead (2016), due dipinti su cartone, tempestati da monetine di rame, di Thomas Hirschhorn. Un incipit voluto come un presagio, uno sdoppiamento dello sguardo che deve attraversare il tempo, ancora prima di venirne a conoscenza. Appena prima che il percorso espositivo abbia inizio. Con questi due lavori a parete, accompagnati dalle dieci bandiere infangate di Pravdoliub Ivanov, Territories (1995-2003), ed EU/Others (200) di Šejla Kamerić, inizia una fra le mostre più turbolente, più esistenziali ideate da Massimiliano Gioni. A piano terra le opere d’arte diventano documento, e le molteplici testimonianze ufficiali si trasformano in impronte della contemporaneità (come, ad esempio, i recuperi del Comitato 3 Ottobre, oppure come il Premio Pulitzer 2016 per la Fotografia, conferito a Sergey Ponomarev) che contengono a stento la moltitudine umana, sulle zolle di una terra senza pace (The Restless Earth, titolo scelto dal curatore per la traduzione in inglese).
REGISTRI DIVERSI
La mostra, suddivisa orizzontalmente tra la galleria al piano terra e il primo piano, offre due registri estetici, politici e critici diversissimi tra loro, due densità di attraversamento, di rilascio delle tracce dei grandi spostamenti che dapprima moltiplicano e poi unificano la visione sulle urgenze terrestri. A piano terra i tasselli cementizi di Architecture Lessons (2013) del libanese Rayyane Tabet arrivano fino a quasi lambire, come una marea di regoli, le ruote della Panda bianca, sovraccaricata, di Nowhere is Home (2015) di Manaf Halbouni, per fondersi con lo stordente monumento effimero dal titolo Memorial for Drowned Refugees (2016) di Meshac Gaba, arrivando a isolare la messa in scena del Black Market (2007) di Pawel Althamer.
TEMI E GEOGRAFIE
Il continuo sovrapporsi di percorsi in movimento, come nella sala dedicata a The Mappin Journey Project (2008-2011) di Bouchra Khalili, di indicazioni statiche, come Liberty e Robert (2001) di Zoe Leonard, e di plastici come Design for a Gipsy Camp in Alba (1956) di Constant preparano la strada per il piano superiore, dove enormi installazioni come Hope (2011-2012) di Adel Abdessemed e Dead Sea (2015) di Kader Attia spaziano nel mare bianco del vuoto.
Il percorso, infatti, si snoda attraverso una serie di nuclei geografici e tematici, il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide, attraverso metafore visive e monumenti precari eretti a commemorazione della storia migratoria della Terra. Luogo instancabile, mondo costituito da mondi migliori ai quali guardare per dover sopravvivere.
– Ginevra Bria
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati