In ricordo di Vito Acconci. Parola a Massimiliano Scuderi
L’architetto, curatore e critico Massimiliano Scuderi evoca il suo legame professionale con l’artista recentemente scomparso, mettendone in luce il profondo radicamento alla vita.
Fin da ragazzo rimasi colpito da Vito Acconci per l’apparente facilità con la quale trasformava le pulsioni dell’uomo, nel rapporto con se stesso e con gli altri, in codici linguistici. La prima volta che lo incontrai – finalmente di persona – fu quando lo invitai a Pescara, nell’Abruzzo del padre, a tenere una conferenza alla facoltà di architettura nell’ambito di una serie di incontri internazionali intitolati “Space, People and Place” da me curata. Mi ricordo la mattina e il primo pomeriggio trascorsi in giro per la città. Gli feci vedere la fontana di Ettore Spalletti, che chiamai al telefono. Poi gli mostrai un lavoro che avevo realizzato per Micheal Lin per Fuori Uso.
Lui sempre con la sigaretta. L’abbandonò, spegnendola sul palmo della mano e mettendosela in tasca, solo prima di iniziare la conferenza.
Un mese dopo mi chiamò per collaborare col suo studio di Brooklyn alla realizzazione del Klein-Bottle project, un playground la cui realizzazione era stata prevista per l’HangarBicocca a Milano, un progetto curato da Adelina Von Furstenberg.
Mi prodigai per il rispetto che ho sempre avuto per gli artisti e, in particolare, per la stima eccezionale nei confronti di Vito.
In seguito facemmo un dialogo pubblico a Faenza per il Festival dell’Arte Contemporanea. Mi ricordo che per me fu una sorta di incontro di boxe. Ne uscimmo entrambi sudati e soddisfatti. Alla fine del dialogo mi disse con la sua voce intensa che gli sembrava essere andato molto bene. Fu per me una gioia sofferta. Da allora abbiamo continuato a sentirci spesso via e-mail fino a quando mi invitò ad andare allo studio di Brooklyn, ma ai tempi non potevo muovermi dall’Italia.
Di Vito ricordo in particolare il fatto che fosse sempre centrato su quello che voleva fare. Lo faceva come se niente fosse più importante, più di respirare, mangiare, dormire, amare, più di sé stesso. Rifiutava negli ultimi anni di essere chiamato artista, diceva di occuparsi di architettura. Mi colpì molto quando mi disse che partendo dalla scrittura, dove aveva provato a far agire le parole nello spazio vuoto della pagina bianca, era giunto allo spazio dell’architettura avendo capito a un certo punto di volere che le persone abitassero i suoi lavori e non più che fossero solo “il pubblico”. Mi diceva che quello di cui si stava occupando non erano oggetti ma strumenti, in quanto gli strumenti si utilizzano e hanno una funzione per l’uomo. Voleva stare dentro la vita, non frontalmente. A ripensarci tutto il suo lavoro in effetti è sempre stato così, da Following Piece alla straordinaria performance Seedbed del ’72 alla galleria Sonnabend di New York, agli ultimi progetti di architettura e design.
Ho i miei ricordi di Vito, anche di alcuni suoi amici e direi “commilitoni” come Mario Diacono. Ho avuto la fortuna di ascoltare gli aneddoti di Lea Vergine o Mimmo Jodice che mi hanno raccontato qualcosa di lui e del loro incontro estremo con lui.
Perché Vito Acconci era sempre in movimento, pronto a superare un limite appena lo riconosceva tale e a superare i suoi, il suo corpo stesso.
– Massimiliano Scuderi
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