Biennale di Venezia. Intervista ad Adelita Husni-Bey
Parola all’unica protagonista femminile del Padiglione Italia curato da Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia.
Voce narrante di un racconto che mescola magia, letteratura e storia, Adelita Husni-Bey (1985) descrive nei dettagli il processo creativo alla base dell’installazione ospite dell’acclamato Padiglione Italia. Tra il lavoro di Roberto Cuoghi e quello di Giorgio Andreotta Calò.
Il tema alla base del Padiglione Italia è la magia. Come hai interpretato questo concetto?
Ho pensato alla funzione sociale della “magia”, come suggerisce De Martino, e al suo percorso storico. A come molte pratiche definite “magiche” sono state marginalizzate e ridicolizzate poiché non rientravano in un quadro positivista e scientifico, tutt’oggi nucleo cardine delle società occidentali. La cartomanzia è una produzione di sapere antica di origine pre-rinascimentale che è sostanzialmente “sopravvissuta” all’avvento della modernità. È una pratica che cerca di soprassedere agli ostacoli tramite la narrativa, una narrativa costruita tra la voce della cartomante e chi si fa leggere le carte.
Perché hai scelto i tarocchi?
Michael S. Howard sostiene che la parola “tarocchi” potrebbe trovare le sue origini nel fiume Taro, tributario del Po, in Emilia Romagna, oppure nella parola araba Turuk, ovvero “strade” o ancora in Taraka ovvero “abbandonare, lasciarsi qualcosa alle spalle”. Mi ha colpito la possibile matrice araba e come la metodologia dei tarocchi sia, in effetti, un modo per analizzare e “lasciarsi qualcosa alle spalle”. In questo senso la lettura dei tarocchi è sia terapeutica che pedagogica: aiuta il lettore, che non riesce con altri mezzi a trovare un senso, a cercarlo nella posizione e relazione tra le carte.
Le Tese delle Vergini sono uno spazio molto caratterizzato. Quanto ti ha condizionato?
Ho deciso di concentrarmi su un utilizzo dello spazio che valorizzasse le strutture, illuminando parte dell’architettura e lasciando del terreno percorribile attorno allo schermo. Ho cercato di produrre, nonostante la grandezza dello spazio, una relazione intima tra gli spettatori e i ragazzi nel video, concentrandomi al centro dell’ambiente e ricreando, attraverso sette speaker, la sensazione di essere presenti in sala con i ragazzi.
Come ti sei relazionata con il lavoro degli altri artisti invitati dalla Alemani nel Padiglione Italia?
In verità c’è stato poco contatto, Cecilia ha voluto lasciarci lavorare in autonomia e questo ha portato a tre risposte molto diverse tra di loro, tre sale indipendenti che rispondono al tema centrale seguendo la ricerca di ognuno di noi; anche se trovo che ci siano chiari richiami tra i lavori, come ad esempio le membra di Cuoghi e quelle che ho prodotto con materiali elettronici “poveri” per la mia installazione.
Secondo Giordano Bruno (ma non solo) la magia è uno strumento del potere politico per soggiogare il popolo incolto e ottenerne il consenso. Come si concilia questa tesi con il tuo lavoro ispirato da modelli pedagogici e da un forte senso di responsabilità sociale?
La magia è uno strumento e un tema molto ampio, ho cercato di approfondire la ricerca di quelle pratiche “magiche” che facevano e fanno l’opposto di “soggiogare il popolo”, quei rituali e quelle figure che proprio in funzione della loro “sfida” alla razionalità e al linguaggio scientifico vengono e venivano marginalizzate. Nel 1973 Barbara Ehrenreich e Deirdre English pubblicano Streghe, levatrici e infermiere, tracciando la storia delle “medicotte” o levatrici, che nel Seicento vengono estromesse e demonizzate per la loro adozione di pratiche che tessevano legami esclusivi tra le donne e la sfera della nascita.
Non è tanto quindi la “magia” (che è un linguaggio come un altro per “produrre senso”) a “soggiogare”, ma il modo in cui la magia, come altri linguaggi, viene usata e da chi. È l’utilizzo della pratica da parte delle egemonie e contro-egemonie dell’epoca a produrre risultati liberatori o oppressivi, non la pratica in sé.
Le tue opere nascono da processi di creazione collettiva: giochi di ruolo, workshop e lavori di gruppo, in collaborazione con membri di comunità diverse. Puoi spiegarci, nel contesto, qual è il ruolo dell’artista?
Il risultato dei laboratori che porto avanti da dieci anni è solitamente un film, ma a volte anche un lavoro audio o fotografico che ha una sua autonomia e che è pensato per l’incontro con un pubblico. Penso che il ruolo dell’artista sia, soprattutto in questo momento storico, un ruolo urgente, che non può permettersi semplicemente di chiudersi in se stesso, dentro e per le istituzioni che lo producono. In questo senso penso che la contaminazione tra diverse pratiche o “ruoli” sia importante. Non credo in una purezza dei ruoli ma solo nella capacità critica di riscriverli di continuo a seconda della propria coscienza e di ciò che si vuole affrontare.
Tra i vari spunti di cui è intessuto il tuo video alla Biennale hai citato gli studi della filosofa Silvia Federici sulla rilettura in chiave femminista della figura della strega. Ce ne parli?
Nel Grande Calibano, Silvia Federici guida il lettore attraverso i passaggi che hanno reso possibile e “reale” la domesticazione del corpo femminile. Partendo da un’analisi storica che vede le donne prendere una posizione attiva nelle sfere politiche e sociali (come capi, ad esempio, degli eretici), Il Grande Calibano descrive come la caccia alle streghe diventi in realtà uno stratagemma per riassestare i rapporti di potere tra i generi a favore del patriarcato. Si intuisce, quindi, come diversi modi di organizzare e capire la realtà (o “cosmogonie”, come le chiama Federico Campagna), scaturiscano dai rapporti di potere di un’epoca; portando la donna a essere raffigurata come “strega” perché sola, nubile o “ribelle” o, in altri casi, alla repressione del sapere indigeno perché rema contro degli interessi economici specifici.
Il video mostra un gruppo di ragazzi con una cartomante che legge dei tarocchi, dove gli arcani sono sostituiti da carte che non appartengono alla tradizione. Ce ne spieghi il senso e il contenuto simbolico?
Nel 2016, durante la fase di ricerca, la protesta di Standing Rock – quando un gruppo di nativi americani si è battuto contro l’introduzione di un oleodotto da parte del governo nei loro terreni – era arrivata allo scontro frontale. Quello scontro è uno dei tanti esempi di concezioni della realtà e utilizzi della terra diversi tra loro. Analizzando le posizioni di quel momento, ho pensato ai dieci “grandi arcani” che ho utilizzato durante la seduta, i quali non fanno necessariamente riferimento a quell’evento ma possono parlare di situazioni similari, come ad esempio gli scontri in Val di Susa. I dieci tarocchi (non tutti visibili nel film) sono: La Fine Continua, La Vulnerabilità, La Terra, I Detriti, La Colonia, Estrazione, Minaccia Astratta, Valore, Simulazione e Minaccia Reale. Nel disegnarli ho inserito contenuti interpretabili e simbolici, come ad esempio nella carta della Colonia, raffigurante un pugno che stringe una catena. Dal pugno emergono delle piccole case, potrebbero essere le case dei coloni o un nascente movimento anti-coloniale, a seconda delle interpretazioni.
Nell’installazione realizzata a Venezia oltre al video compaiono anche alcune sculture. Cosa rappresentano? In che modo si relazionano al video?
A inizio 2017 ho prodotto varie parti del corpo in silicone che abbiamo utilizzato nel laboratorio teatrale, come membra prostetiche, futuristiche ma al contempo “comuni” e “umili”, collegate tra loro con delle lunghe corde LED. Nel video la seduta viene intervallata da performance pensate dai ragazzi sotto la mia guida, che utilizzano questi oggetti di scena luminescenti. Nell’installazione invece gli oggetti di scena creano un “tappeto” di vene di luce a suggerire le connessioni tra i gesti delle mani a pugni chiusi, aperti, mani che chiedono, mani che si prostrano, rappresentando le diverse voci, sia conflittuali sia di condivisione, che ci legano al futuro dell’utilizzo del terreno.
In questo momento storico così delicato, con i suoi conflitti sociali e politici a livello planetario, pensi che l’arte debba prendere una posizione o ripiegarsi su se stessa?
L’arte prende sempre una posizione, anche il “ripiegarsi su se stessa” è in realtà una “posizione” ideologica ben precisa. Le posizioni sono necessariamente conflittuali al loro interno, ma contano le intenzioni.
– Lori Adragna
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