“Comunità” e “Nazione”. Su Renzo De Felice
Michele Dantini riflette sulle posizioni dello storico De Felice, legandole ai bisogni dell’arte contemporanea. Alla scoperta di valori dimenticati e necessari.
Può sembrare strano lanciare una riflessione su uno storico politico, sia pure grande e giustamente celebre in Italia e all’estero come Renzo De Felice, sulle pagine di una rivista d’arte contemporanea. Ma non è così. Perché De Felice, questa la mia tesi, si è proposto, soprattutto con l’imponente ricostruzione della biografia politica di Mussolini, ma non solo, di consegnare all’Italia repubblicana qualcosa come un mito fondativo – uno sforzo di comprensione e memoria da cui possa discendere un progetto rivolto al futuro.
Quando, anche su queste pagine, parliamo di “valori”, di “comunità” o addirittura di “fraternità”, ci interroghiamo di fatto su qualcosa che sembra mancare all’arte italiana contemporanea, e la cui assenza ci viene imputata, non senza severità, da questo o quell’osservatore internazionale. Una memoria condivisa, certo, e insieme un’immaginazione di futuro che possa dirsi (in senso aperto e cosmopolita, tuttavia anche intrinsecamente) “nazionale”. È proprio perché De Felice, con pochi altri, sembra poter offrire risposte al nostro disatteso senso di comunità che ha senso parlarne, qui e altrove.
Parliamo pure di amnesie: ecco che lo storico, nel proposito di De Felice, rimuove fratture e ostruzioni del “discorso collettivo”. Si muove come un terapeuta, non come un semplice studioso: è sì uno specialista, ma il suo specialismo, accompagnato da un vasto disegno che è filosofico-politico e politico-culturale, suscita guarigione in un corpo malato.
“Il rapporto tra arte e religione, tra modernità e “tradizione” gioca un ruolo decisivo, e mai del tutto risolto, nel Novecento italiano sino a oggi”.
La prima tesi di De Felice è relativa alla varietà e molteplicità di culture che modellano la società italiana nei decenni della dittatura, combinandosi in vario modo nel periodo della Resistenza e della ricostruzione: da questo interminabile processo, spesso sanguinoso e senza mai effettiva conciliazione, discende ai suoi occhi l’Italia di oggi. Un Paese al cui interno non tutte le culture hanno diritto di pari cittadinanza, segnato da vistosi processi di rimozione e dall’eccessiva distanza tra élite culturali, che amano rapportarsi a modelli e standard stranieri, e “popolo”. Non è affatto, qui per De Felice, un problema di “alta cultura”: ché anzi la sua stessa ricerca storiografica, proprio in quanto capace di trascendere i limiti dell’ordinario specialismo accademico, si connota ai suoi occhi come “alta”. È in gioco piuttosto un mancato riconoscimento di una comune umanità, di qualcosa come (cito qui Michael Walzer) una “vocazione profonda” del Paese. C’è un’eccessiva asprezza, un’esterofilia non scevra di elementi di classismo, una ricerca di distinzione che orienta spesso le opinioni delle classi dirigenti economiche e politiche o di chi scrive sui giornali che impedisce di considerare il “Paese reale” e di provare magari pietà invece che disprezzo. In primo luogo per se stessi.
IL LEGAME CON L’ARTE
Che ha che fare questo con gli artisti? Non molto, a giudicare dallo scarso o scarsissimo rilievo che argomenti di tema artistico e culturale, sia pure politico-culturale, hanno nella ricerca defeliciana. Molto, se siamo in grado di gettare ponti tra ambiti discorsivi e discipline diverse: perché il rapporto tra arte e religione, tra modernità e “tradizione” gioca un ruolo decisivo, e mai del tutto risolto, nel Novecento italiano sino a oggi. Quale risorse attingere alla tradizione dei secoli passati? Come rinnovare senza distruggere? Oppure meglio fare tabula rasa? È mia convinzione di storico e critico che i migliori artisti italiani del secondo Novecento, peraltro tra i più riconosciuti in ambito internazionale, da Fontana a Manzoni, da Burri a Paolini a Fabro e Boetti, per non parlare di De Dominicis, siano da comprendere molto più come neotradizionalisti eterodossi che come “innovatori” nel senso ovvio e triviale della mera adesione all’International Style. Potremmo immaginare Fontana senza il Barocco (e senza la reinvenzione di Persico di ciò che chiamiamo “Europa”, “impressionismo”, “tradizione”); o Paolini senza il riferimento a una pittura di luce che ha la sua sede storica elettiva nel nostro Quattrocento? Anche oggi gli artisti che a me sembrano più rilevanti in Italia, da Lambri a Favelli, da Arienti e Pessoli a Cuoghi, intrattengono relazioni cruciali, al di là e contro una qualsiasi irragionevole sottomissione, a un vivido repertorio di fantasmi e memoria.
– Michele Dantini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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