#presentense (IX). Rivedere l’arte contemporanea
Negli ultimi decenni l’arte contemporanea ha preso sempre più le distanze dalla dimensione sociale e dalla collettività. Eppure oggi qualcosa torna a muoversi nella direzione di logiche comunitarie, che vanno assecondate.
“La città non è altro che una certa casa grande,
e per lo contrario la casa una città picciola”.
Andrea Palladio, Quattro libri (II, XII)
In viaggio per Amatrice, 10 giugno 2017. Il tema fondativo di questi anni è lo scontro tra élite e popolo. In assenza di sottoculture, questa tensione diventa sempre più esplosiva anche dal punto di vista culturale. Se l’arte non è – non è più; non è ancora – un linguaggio in grado di svolgere una funzione utile per le persone, allora inevitabilmente serve altri gruppi, altre classi, altri codici. E non si può fare a meno di pensare – visitando i grandi eventi artistici, o guardando semplicemente i video su YouTube con gli addetti ai lavori che passeggiano, ben vestiti e al fresco, durante l’inaugurazione della Biennale, guardandosi intorno per nulla spaesati – che l’arte contemporanea si sia molto dedicata negli ultimi decenni a elaborare articolati ed esclusivi rituali sociali, e molto poco invece a ricostruire e ampliare la sua dimensione sociale, e il proprio impatto sulla vita collettiva. È come se, di fatto, vivesse molto bene la propria condizione di “irrilevanza” sostanziale – e, anzi, ci si fosse proprio affezionata.
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Su innovazione e avanguardia: per riconnettere l’arte alla gente, al popolo, bisogna “vivere” con la gente. Fare esperienze ricche e dense con la gente. Essere la gente – e non qualcosa di distinto, distante. Ciò vuol dire essere anche e soprattutto completamente APERTI e disponibili nei confronti di ciò che l’esistenza e il pensiero e la realtà altrui ci offrono, non cercare di rispecchiare noi stessi e le nostre preoccupazioni, i nostri circuiti, di tentare di ritrovare ciò che già sappiamo all’interno di questa realtà. Se all’inizio un processo di questo tipo può magari mettere un po’ di ansia (: essere altro da sé, identificarsi con l’altro, genera ansia), produrre frizione e attrito, gradualmente comprendiamo l’enorme PIACERE insito in questa sorta di autoannullamento, di sparizione-con-presenza.
D’altra parte, molta arte significativa del XXI secolo sembra consistere in un solo apparentemente paradossale “essere-presenti-scomparendo”: nel combinare cioè una strana forma di presenza con una strana forma di assenza.
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E tutto sta andando nella direzione della COMUNITÀ e della elaborazione collettiva – dei processi che hanno a che fare con lo stare-insieme, con il vivere-in-comune –, la creazione non è affare di pochi privilegiati (magari per censo), non lo è mai stata – e anche l’illusione di chiudere, di escludere, di erigere cancelli e muri per tenere fuori i “cafoni”, gli “stramboidi”, gli “sfigati”, i “poveracci” è, per l’appunto, solo un’illusione. Anche piuttosto patetica.
Possiamo solo oggi, in questo preciso momento storico, realizzare – o provare a realizzare – davvero le intenzioni autentiche, le visioni migliori, i progetti più onesti di cinquant’anni fa, perché rispetto ad allora abbiamo piena esperienza della caduta, del fallimento, della fine. E non di una fine “amorale” (per così dire), di una povertà di mezzi e di risorse da cui può partire tutto come fu ancora prima, nel dopoguerra, ma proprio della fine di un benessere lungo decenni, di un’educazione, di un codice culturale e di comportamento, di una civiltà. Questa esperienza che è ormai parte integrante della nostra vita ci alimenta (con grande amarezza, va detto; a volte con cinismo – che va evitato) e ci spinge in avanti, a ricostruire su basi nuove.
Il contemporaneo è il collasso del tempo.
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Torino, 26 maggio. Che fine ha fatto Scott Weiland? Una brutta fine.
Sono tutti morti – i cantanti che ascoltavi da piccolo, e che ascolti tuttora, sono tutti morti più o meno giovani. Andrew Wood Kurt Cobain Layne Staley (adesso per esempio stai ascoltando Nutshell degli Alice in Chains) Scott Weiland (hai appena finito di sentire Crackerman) Chris Cornell. L’avresti detto, quando eri adolescente? Beh, sì.
Che cosa trovavo negli Stone Temple Pilots, e che cosa ci trovo ancora oggi? Quel sentimento scanzonato e malinconico; quella capacità di trascendere e trasfigurare istantaneamente il grunge, passando dalla pesantezza e dall’adrenalina a una dolcezza molto triste di vacanze, abbandono e cocktail sulla spiaggia, atmosfere rarefatte e sospensione metafisica in salsa di San Diego. Questo chi ve lo dà, o ve lo dava, se non Scott Weiland?
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Una delle prime esperienze di “arte contemporanea”: il viaggio – da solo – che ti sei regalato nell’ottobre 1999 alla Biennale di Venezia; l’emozione fortissima di through a looking glass di Douglas Gordon (catturato nel mezzo della videoinstallazione), e poi, di sera, il vaporetto che oscilla nella tempesta, nel buio e nei lampi, i gridolini spaventati delle turiste, il rischio di finire in acqua – quasi una premonizione.
– Christian Caliandro
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