Street Art e responsabilità. Intervista a eL Seed
Alla sua prima personale in Italia, allestita presso la galleria Patricia Armocida di Milano, l’artista franco-tunisino eL Seed, famoso per i suoi interventi di urban art, invita ad abbandonarsi alla percezione e a cercare le risposte nelle sue opere.
Una mostra, Tradizione proverbiale, aperta a complessità e smarrimenti che vanno oltre il dibattito sul postmoderno. L’alfabeto arabo si trasfigura, occidente e tradizione araba si intrecciano, influenze estetiche conflagrano, memorie identitarie si sedimentano, sperimentazioni si avvicendano e viaggi riaffiorano. Tutto questo è nei calligraffiti di eL Seed (Parigi 1981; vive a Dubai), star dell’arte urbana sfavillante da anni sulla scena internazionale, quest’anno vincitore del premio UNESCO-Sharjah per la cultura araba e al suo ingresso sul mercato italiano grazie al lungimirante intuito di Patricia Armocida.
Un allestimento senza orpelli, apparentemente omogeneo e di sicuro impatto ottico, si trasforma in un’esperienza di mediazione cultural-sensoriale, grazie a un artista che, reticente sul suo vero nome (el Seed è uno pseudonimo ispirato al personaggio di El Cid Campeador, dove l’omofono “Seed” significa “Seme”), sui suoi orientamenti politici e religiosi e sull’ispirazione letteraria delle sue opere, si fa interprete e portavoce di un ipertesto esistenziale ibrido, tanto attuale quanto misterioso. Come sembra suggerire la sua intervista e come recita la frase che ha ispirato la serie di opere in mostra intitolata Perception, “chiunque voglia vedere chiaramente la luce del sole deve prima pulire i propri occhi”.
Quando e dove hai prodotto le opere in mostra alla Galleria Patricia Armocida?
Produco tutte le opere nel mio studio a Dubai. Ho creato le opere nei mesi precedenti alla mostra.
Quali contenuti verbali e letterari incorporano queste opere? Includono detti tradizionali o altri tipi di contenuti?
Le parole sono una reinterpretazione visiva delle opere che ho creato in spazi pubblici di tutto il mondo. Nello spazio pubblico, le parole che ho usato sono rilevanti per il luogo specifico dove dipingo. Mi assicuro sempre che i miei lavori non solo parlino alla comunità locale, ma abbiano anche una dimensione universale, in modo che chiunque, in tutto il mondo, possa relazionarsi con essi.
L’uso dei colori si ispira principalmente all’arte urbana e al graffito oppure c’è un particolare simbolismo cromatico?
Ho cercato di utilizzare colori e tecnica in modi diversi. Per questa mostra ho introdotto un nuovo tipo di lavoro: una tecnica ad acquarello in cui la calligrafia scompare sullo sfondo. Sto ancora sviluppando questa tecnica, cercando di applicarla su un nuovo muro. Di solito, il trasferimento di tecniche va dalla parete allo studio. In questo caso è esattamente il contrario.
Le tue opere evocano anche l’Optical art. Come orienti la percezione degli spettatori?
Per me è importante che gli spettatori interagiscano con l’opera. Nell’ultimo anno, ho sfidato me stesso per creare nuove opere che mettano in discussione i processi legati alla percezione. Il pezzo d’arte è vivo, la forma cambia, il colore sbiadisce, la luce riflette sul colore… gli effetti sono molti.
Quando crei i tuoi lavori, quale musica ti ispira? A quale musicalità fai riferimento nelle tue opere?
I miei gusti musicali sono molto eclettici. La mia playlist va dalla vecchia musica francese al rap underground alla musica araba classica e a cantanti come Louis Prima. Sento la calligrafia come qualcosa di musicale in sé. Contiene una poesia che non devi tradurre. Puoi apprezzare e sentire un’emozione senza comprendere ciò che è scritto, allo stesso modo in cui ti piace una melodia cantata in una lingua che non parli.
A Milano hai creato opere ad hoc. Questi pezzi hanno corrispondenti su scala diversa? Perché in questa mostra hai deciso di adottare un medium “tradizionale” come la pittura su tela?
Il mio lavoro nello spazio pubblico e quello in studio sono collegati, ma sono due pratiche diverse. Come artista amo esplorare nuove tecniche e sperimentare su diverse superfici. La mostra Tradizione Proverbiale mira a rendere omaggio alla tradizione proverbiale araba che mi ha ispirato anni fa, reinterpretando le parole che ho usato in alcuni lavori precedenti creati in spazi pubblici.
C’è un elemento di spiritualità nel tuo lavoro?
Credo che la scrittura araba tocchi l’anima prima di raggiungere gli occhi. La poesia e il dinamismo delle lettere trasportano lo spettatore in uno stato mentale diverso, che richiama alla spiritualità.
L’uso pittorico dell’alfabeto arabo sembra non solo legato alla calligrafia islamica, ma ricorda anche l’assioma derridiano “There is no outside-text“. Il tuo uso dei calligraffiti è una scelta o una necessità?
Penso che il mio uso della calligrafia sia un bisogno. All’inizio è stato un bisogno personale, come una ricerca identitaria. Non riuscivo a trovare una mia definizione come individuo e pensavo di dover scegliere tra identità francese e identità araba. La calligrafia mi ha permesso di legare insieme le mie identità. Oggi uso la calligrafia come strumento per connettere persone, culture e generazioni. Nel mondo attuale, continuare a fare arte è diventata una necessità e anche una responsabilità sociale.
– Margherita Zanoletti
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