Da Madrid alla Biennale di Venezia. Intervista a Manuel Borja-Villel
Il direttore del Reina Sofia di Madrid racconta nel dettaglio che cosa significhi presiedere la giuria della Biennale di Venezia. Suggerendo anche qualche utile cambiamento nella costruzione della rassegna lagunare.
Manuel Borja-Villel è una delle personalità più autorevoli nel campo dell’arte contemporanea in Spagna. Da oltre nove anni dirige il più importante museo spagnolo, il Reina Sofia di Madrid, ma in passato ha avuto un ruolo determinante nella nascita della Fondazione Tàpies (dal ’90 al ’98) ed è stato direttore del Macba di Barcellona (dal ’98 al 2008).
Apparentemente schivo e riservato, Borja-Villel è uno storico dell’arte appassionato e convinto promotore dell’opera di artisti meno noti al grande pubblico. Negli ultimi anni, infatti, per gli spazi del Museo Reina Sofia sono state allestite retrospettive di autori non popolarissimi: l’indiana Nasreen Mohamedi, il messicano Ulises Carrión, lo svizzero Remy Zuagg, il polacco Andrej Wroblewskj e l’americana Lee Lozano, solo per citarne alcuni. Nel novero delle proposte espositive più originali c’è senz’altro anche la bella antologica dedicata al tedesco Franz Erhard Walter, allestita per tutta l’estate nello spazio del Palacio del Velázquez, nel cuore del Parco del Retiro.
A Erhard Walther (classe 1939), la giuria della 57. Biennale di Venezia, presieduta da Manuel Borja-Villel, ha assegnato non a caso quest’anno il Leone d’oro come miglior artista presente in Laguna.
Cosa significa essere presidente della giuria alla Biennale di Venezia?
Non è la prima volta: fui presidente della giuria già nel 2007, con la direzione di Robert Storr. Fu l’anno che premiammo l’argentino León Ferrari per il suo provocatorio Cristo crocifisso a un jet. Essere in giuria in Biennale è un privilegio, ma è anche una gran responsabilità: è ingiusto, a volte, dover selezionare all’interno di proposte tanto diverse fra loro; essere costretti cioè a paragonare artisti giovani e autori storici, installazioni site specific e opere selezionate dai curatori, proposte antologiche o novità mai viste prima.
Conosceva già di persona gli altri membri della giuria? Come è stata la relazione fra voi, considerando le diverse provenienze artistiche e culturali?
È stata un’esperienza molto stimolante. Conosco da anni Mark Godfrey, lavoriamo in istituzioni simili e insieme abbiamo collaborato alla mostra su Alighiero Boetti, qualche anno fa a Madrid. Il confronto con gli altri critici è stato interessante proprio per la diversità di vedute e di prospettive culturali, come nel caso di Amy Cheng, che proviene da un contesto di piccola produzione artistica a Taiwan, o di Ntone Edjabe, giornalista e dj in Camerun. Abbiamo visitato insieme la Biennale per una settimana intera, ma ciascuno lo ha fatto con il proprio ritmo; siamo tornati più volte a osservare alcune opere, e capitava spesso che uno di noi fosse attratto da un dettaglio, da una percezione diversa, e richiamasse gli altri a una determinata riflessione. Con una giuria così diversa, pluralista e forse anche un po’ eclettica, il percorso in Laguna è stato davvero insolito e tra di noi è scaturito un dibattito fecondo, una discussione democratica che ha portato alla scelta dei premi. Alcune opere sono state beneficiate proprio dalla natura pluralista della giuria.
Un esempio?
Il caso del videowall di Charles Atlas (menzione speciale), allestito all’Arsenale, che apparentemente sembra solo la ripresa multipla di un bellissimo paesaggio al tramonto. A una visione meno affrettata, più attenta, l’opera appare invece in tutta la sua complessità. Se l’osservatore si lascia implicare emotivamente, unendo le immagini alle voci – come ci ha fatto notare uno dei giurati – dalla realtà visibile del video emerge una realtà occulta, più profonda ed emozionante. Dalle diverse prospettive critiche è nata l’analisi estetica di un’opera importante.
Con quali criteri avete selezionato le migliori proposte dell’anno in Biennale?
Abbiamo cercato l’equilibrio fra le diverse pratiche artistiche. Franz Erhard Walter, per esempio, è una figura storica da rivalutare, attivo dagli Anni Cinquanta; è quasi un artista nomade, che crea oggetti in tela che si possono trasportare facilmente e che hanno senso solo in relazione con la vita dell’uomo, che se ne appropria, li indossa, li ripiega, li utilizza; nell’uso del colore, del tessuto e delle forme cucite tra loro esiste poi un elemento femminile molto marcato. Petrit Halilaj, invece, è un artista giovane, che inserisce elementi biografici (le sue opere sono realizzate con la madre e parlano dei suoi terribili ricordi di infanzia) in un contesto storico concreto, quello del Kosovo, con grande intelligenza formale e compositiva. Atlas e Hassan Kahn rappresentano invece altri mondi, diametralmente opposti ma complementari.
Viva Arte Viva. È d’accordo con il titolo che Christine Macel ha dato alla Biennale? Cosa pensa della suddivisione in padiglioni transazionali?
La divisione in categorie formali astratte, forzate, può essere spesso limitante per il lavoro di un artista, che in realtà potrebbe appartenere contemporaneamente ad ambiti diversi. Di là dall’apparente armonia, spesso esistono elementi di tensione, forzature, segni di un universalismo eurocentrico che non è conforme con opere scaturite da altre categorie culturali o geografiche. L’elemento positivo di questo tipo di suddivisione un po’ schematica, invece, sta nella possibilità di scoprire relazioni inaspettate e interessanti tra artisti sconosciuti.
È ancora fondamentale oggi la presenza ai Giardini degli storici padiglioni nazionali o possono convertirsi in elemento spaziale e architettonico limitante per il lavoro di un artista?
La struttura della Biennale di Venezia corrisponde a un’altra epoca, ai tempi delle expo universali: è tradizionale, asimmetrica e fortemente geopolitica. Il visitatore è ancora oggi attratto, per esempio, dalla collina delle superpotenze (Francia, Germania e Gran Bretagna) che domina idealmente lo spazio dei Giardini. La crisi dello Stato-Nazione, e il fatto che gli artisti spesso sono apolidi o lavorano in Paesi diversi dal proprio, potrebbe essere un incentivo a riprogettare la struttura della Biennale, magari eliminando la suddivisione in padiglioni nazionali, che crea anche una discriminazione inevitabile fra Paesi ricchi e Paesi poveri. I contenitori poi non sono mai del tutto neutri, sono già di per sé portatori di una forte carica simbolica.
Quali soluzioni si potrebbero adottare?
Si potrebbero inserire altri elementi per superare le categorie nazionali: come il concetto di Europa, di Mediterraneo o di Medio Oriente, ambiti geografici più complessi dove fluiscono le idee e avvengono gli innesti culturali. Immagino però che un cambio radicale a Venezia, come si fece tempo fa alla Biennale di San Paolo, sia difficile da realizzare, visto che spesso i padiglioni sono di proprietà delle nazioni. E ci vorrebbe forse un curatore unico, che scegliesse gli artisti in base all’architettura dei padiglioni stessi, e non viceversa, pensando magari anche di occupare gli spazi neutri, intermedi, di passaggio, rendendo la mostra forse più dinamica ed equilibrata.
La Biennale di Venezia è oggi un luogo di consacrazione di un artista o una vetrina internazionale per giovani talenti?
Né l’uno né l’altro. La Biennale è un formato espositivo diverso, più dispersivo rispetto a un museo o a una galleria privata. È un momento di confronto, di condivisione, che permette agli artisti di stimolarsi vicendevolmente; è una sfida personale, che può anche trasformarsi in un momento di confusione, di eccessiva visibilità, che impedisce a taluni di esprimersi al meglio. Il padiglione fallito, come nel caso della Romania, è quello dove il curatore pretende invece di realizzare un progetto impossibile, come una antologica in uno spazio che non lo permette.
Quest’anno a Venezia si sono viste molte performance, happening e autentiche messe in scena. I confini tra arte e vita sono sempre più sottili. Dov’è oggi l’oggetto d’arte da collezionare, l’espressione artistica più autentica della nostra arte?
L’arte contemporanea ha molto di performativo, la vita irrompe prepotentemente nell’arte e per questo abbiamo premiato il Padiglione della Germania, che è una performance continua, coinvolgente e quasi ossessionante. A differenza dell’epoca delle Accademie, oggi non si può parlare di tecnica ma di formati diversi, l’arte è trasversale, teatrale, spettacolare, al suo interno l’artista applica diverse tecniche. Il problema è però che la performance ha bisogno di tempi dilatati e di spazi adeguati, che le strutture tradizionali delle biennali spesso non hanno. Il dibattito è dunque aperto: o la Biennale ammette i suoi limiti oppure la mostra cerca di inserire happening e performance con il rischio, a volte, di trascendere nell’esotismo, come nel caso della tenda con gli indiani di Ernesto Neto, o del populismo, come nel caso del workshop per le Green Light con i rifugiati di Olafur Eliasson.
– Federica Lonati
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati