Immaginare un paesaggio con la scultura. Intervista a Salvatore Arancio
Protagonista alla Biennale di Venezia fra gli autori scelti da Christine Macel nell’ambito della mostra internazionale, Salvatore Arancio racconta origini e sviluppi della sua pratica, che affonda le radici nel linguaggio della ceramica.
La sua è un’immersione totale in una natura immaginata e fantastica, mediante la costruzione di forme scultoree totemiche: le ceramiche di Salvatore Arancio (Catania, 1974; vive a Londra), in mostra da Federica Schiavo a Milano, provengono da un immaginario sfaccettato, soprattutto dall’osservazione di civiltà remote, in un continuo rincorrersi di concetti legati al mondo vegetale, minerale, artificiale. Tra i protagonisti di Viva Arte Viva, la Biennale curata da Christine Macel, Arancio racconta la sua indagine e le prospettive della sua ricerca.
In Fashioned to a device behind a tree, l’installazione presentata al miart nel 2017, la scultura – com’è già accaduto in altri momenti della tua ricerca – entrava in relazione con una dimensione performativa e i corpi vivevano un rapporto sinergico con la plasticità della forma. Come nasce questa interazione?
Era un’installazione che avevo fatto per il Camden Arts Centre e in fiera l’ho allestita in versione ridotta. Volevo un po’ spingere il materiale ceramico verso un fronte poco utilizzato in passato, intendevo esplorare cosa sarebbe accaduto utilizzano la ceramica in questa chiave. Mi piaceva molto l’idea dell’animato che diventa inanimato, del mimicking del performer che diventa scultura. Il momento di attivazione di questo “giardino” è effimero, di passaggio, consentendo l’evoluzione di un’esperienza vera e propria.
Da alcuni anni la ceramica è al centro della tua ricerca, decretando il passaggio dalla bidimensionalità delle incisioni e delle stampe digitali alla tridimensionalità della scultura.
La utilizzo dal 2011, prima che diventasse in qualche modo di moda, e di sicuro la mia scelta non aveva nulla a che fare con quello. Ho sempre considerato la ceramica come un progresso naturale, perché è un materiale che arriva direttamente dalla natura, per questo la ceramica non è stata una scelta casuale, per me aveva molto più senso rispetto a materiali scultorei con origine diversa. Da molti anni volevo staccarmi dal bidimensionale, sporcarmi le mani, avere un rapporto diretto con la materia. Prima mi occupavo maggiormente di acqueforti, fotografia, video, disegni.
La ceramica è un territorio che presuppone sperimentazioni e rischi. Non ci sono regole.
Nel 2011, quando sono stato invitato a una residenza al museo Carlo Zauli di Faenza, con l’aiuto di un ceramista ho imparato le basi tecniche.
È uno di quei materiali che mi affascina perché ha tante possibilità, cerco di usarlo allontanandomi da talune restrizioni tecniche. È un materiale liberatorio. Non ci sono regole scritte al 100%, ogni ceramista le altera, le reinventa, lavora autonomamente e questo aspetto mi piace molto. Io, lavorando da artista, spingo su questo fronte. Nella mia pratica è come se io facessi ritornare questo materiale a un mondo naturale, a una natura fantastica.
Niente restrizioni tecniche, quindi.
Spesso le forme delle mie sculture in sé sono quasi impossibili, fragili. Lavorare diventa così una specie di sfida, di prova. Il rischio è che le opere esplodano nel forno, anche se per fortuna mi è capitato solo raramente, comunque è spesso alto; questo elemento di imprevedibilità appartiene per statuto alla ceramica, la rende un materiale veramente unico. Negli ultimi anni ho acquisito nuove consapevolezze sulla tecnica, ma cerco sempre di tenere lontane le restrizioni di questo tipo, bisogna dimenticare il bagaglio, anche per questo, ad esempio, non provo mai gli smalti. È importante che le forme finali siano condizionate dal processo di lavorazione, non mi piace ottenere esattamente alcune cose, amo piuttosto lasciare alcuni aspetti al caso. Per esempio è la forza di gravità che presuppone la nascita di alcune forme, e io lascio che tutto accada senza bloccare in alcun modo questi processi.
Questo accade anche quando lavori coadiuvato da artigiani specializzati?
No, per esempio i lavori prodotti recentemente per la Biennale con la Bottega Gatti di Faenza, dati i tempi stretti, essendo più complessi e necessitando anche di una fase di elaborazione più lunga, sono stati concepiti con il loro supporto. In altre occasioni, invece, ho fatto tutto da solo.
Mi pare che la forma sia una questione stringente di tutta la tua ricerca. Da dove deriva?
La forma parte da un immaginario che ho in testa, una memoria. Non parte mai da un’immagine che cerco di riprodurre ma da un’idea di immagine, che trovo magari su Internet e che molto spesso deriva dalla natura o dal mondo scientifico. Il lavoro della Biennale, per esempio, l’avevo creato inizialmente con un rendering ed è stato davvero emozionante quando me lo sono ritrovato davanti in 3D, proprio come l’avevo immaginato.
Parliamo della Biennale di Venezia, sei nella mostra internazionale di questa edizione.
Sono stato invitato da Christine Macel nel luglio dello scorso anno, non avevo mai avuto alcun contatto con lei. Naturalmente questo invito ha rappresentato un momento importante per me, molto bello. Sono quelle occasioni che ti fanno capire che tutto ha un senso e che la gente è a conoscenza del tuo lavoro.
Quelli in mostra sono dei lavori molto grandi in ceramica, è stato un momento molto intenso sul fronte della produzione. Ho iniziato a lavorare a queste nuove sculture nel gennaio scorso, a Faenza. Io faccio una vita abbastanza nomade, si impara sempre quando ci si muove, il lavoro si riformula, si ricompone grazie agli incontri che si fanno. Sono infatti in partenza per una residenza in Messico, due mesi di scambio con le popolazioni indigene vicino a Puerto Escondido, durante la quale, creando un progetto collaborativo, avrò l’occasione di imparare nuove tecniche di lavorazione della ceramica.
Mi hai raccontato che alcuni anni fa hai tentato di ottenere i permessi per visitare una importante caverna sede di cristalli giganteschi di Selenite, scoperta all’incirca venti anni fa, nel nord del Messico. Di un posto molto simile parlava quasi come una premonizione anche Jules Verne ne Il viaggio al centro della terra. Parte da questo luogo straordinario e inaccessibile il percorso della mostra in corso da Federica Schiavo a Milano. La mostra è una commistione di forme che attraversano concetti come minerale, vegetale, artificiale e naturale.
La mostra di Milano è un viaggio nel tempo, denso di forme totemiche, forme organiche che si sono trasformate in qualcosa di alieno. È un viaggio, sì, un viaggio senza meta e senza punto di partenza. Il primo ambiente riflette l’immaginario della caverna di cristalli che, sfortunatamente, non sono mai riuscito a vedere. Si trova in Messico sotto una miniera d’argento: l’ho immaginato, questo paesaggio, un po’ come rimedio alla frustrazione di non aver mai ottenuto il permesso di visitarle. Mi sono poi accorto che questo, in qualche modo, rifletteva anche la premonizione di Verne e il mio grado di immaginazione, che si concentra su una riflessione dedicata a possibili civiltà scomparse.
E nelle altre stanze della galleria?
Nel secondo ambiente c’è una specie di straniamento e lo spettatore scopre tutto d’un tratto di essere a sua volta osservato dalle sculture, di essere osservato da queste iridescenti sentinelle arrivate da una civiltà lontana. In questa stanza si rivela un paesaggio, in qualche modo spirituale, che parte da una seduta di ipnosi, evidenziando un lontano futuro o un lontano passato. Nella stanza successiva, invece, emerge un elemento minerale, che crea un legame con il mio interesse verso gli ambiti legati alla scienza e alla mitologia; un’altra strana presenza che osserva il visitatore, forse un esempio di shapeshifting, come per esempio succedeva con uno dei personaggi della serie televisiva di fantascienza degli Anni Ottanta Spazio 1999.
– Lorenzo Madaro
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