L’errore (e il gesto nobile) di Sam Durant. Distrutta l’opera che offendeva gli indiani Dakota
Un’opera intensa, importante, che portava con sé un messaggio indispensabile contro l’orrore della pena capitale e della sopraffazione razziale. Opera che però non ha tenuto conto della sensibilità di chi voleva tutelare. Un errore di metodo, che è costato caro a Sam Durant…
Ci sono casi in cui il “fallimento” di un’opera registra e racconta qualcosa di cruciale. Qualcosa che finisce col far parte dell’opera stessa. Non la sua effettiva negazione, ma un’altra possibilità, uno sviluppo imprevisto, l’errore che apre a un senso nuovo. E la stessa fine può, nei casi migliori, aumentare i livelli di lettura, superare la contingenza della forma e dischiudere la dimensione del processo. E questo accade anche – o forse soprattutto – per le opere potenti, incisive. Fallite dunque, in che senso?
UNA GRANDE OPERA SULLA PENA DI MORTE
Il caso di Scaffold, monumentale installazione presentata da Sam Durant nel 2012 a Kassel, per documenta13, è emblematico: al centro delle cronache dell’arte in questo inizio di giugno, per l’insospettabile destino che l’ha travolta, ha visto l’autore ridiscuterne il significato e la legittimazione.
Scaffold è una misteriosa architettura di legno grezzo, un’alta pedana sormontata sui quattro lati da 7 scalinate. Apparente macchina celibe, l’oggetto rivela poi la sua natura macabra: si tratta di forche, patiboli, i tipici “palchi” utilizzati per le esecuzioni di piazza. Un’evocazione nuda e cruda di 7 celebri casi di condanna a morte avvenuti in USA tra il 1859 e il 2006.
L’INCIDENTE DIPLOMATICO CON GLI INDIANI SIOUX
L’opera era stata acquisita dal Walker Art Center di Minneapolis, che aveva pianificato di installarla in permanenza nel suo giardino. Ma non tutto è filato liscio. È stata proprio la locale comunità Dakota a opporre resistenza, manifestando la propria indignazione: per i nativi americani, sulla cui memoria pesano storie di genocidi, di emarginazione e di violenza razziale, l’edificazione dell’inquietante oggetto suonava come un oltraggio. Un monumento all’orrore? Un messa in scena della violenza, per ridestare il dolore? L’operazione concettuale di Durant, lontana dall’estetica e dalla cultura del popolo Sioux, assumeva una valenza imprevista: riportare in vita l’ombra del male, mortificando i superstiti di una vicenda tragica. Da qui la richiesta di smantellare l’installazione e addirittura di darle fuoco, così da disperdere l’energia negativa in un rito liberatorio.
IL RITO DELLA DISTRUZIONE
Durant, con un gesto nobile, ha ammesso pubblicamente l’errore e ha acconsentito allo smantellamento, trasferendo ai Dakota i diritti di proprietà intellettuale sul lavoro. La mancata comunicazione con la comunità, la cui storia dolorosa era al centro del progetto, si è rivelata il punto debole di un lavoro complesso, forte, formalmente e concettualmente rigoroso, che intendeva tramutare la testimonianza in denuncia. E l’assunzione di responsabilità è stata totale. Secondo un accordo siglato tra i nativi americani, l’artista e la direzione del museo, il legno è stato spostato in un parco pubblico di Minneapolis, a Fort Snelling – area in cui i Dakota furono imprigionati dopo il 1862 – nell’attesa che gli anziani della comunità decidano cosa farne. La distruzione a colpi di seghe elettriche, nel giardino del Walker Art Center, è stata accompagnata da una cerimonia solenne. E risuonano severe le parole dell’anziano Sioux Sheldon Wolfchild rilasciate al magazine locale StarTribune: “Avrebbero dovuto studiare. Sarebbero dovuti venire dai nostri anziani e dalla nostra gente. Perché non lo hanno fatto? Perché il nostro sistema educativo non insegna la verità storica sulla guerra del 1862. Ecco perché“. Dallo scempio della pena capitale e della sopraffazione razziale alla rimozione dei fatti. Con l’arte che aiuta, dopo quasi due secoli, a far emergere conflitti, a sanarli, a costruire consapevolezze e coltivare sensibilità nuove.
– Helga Marsala
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