Meet the meat. Gli artisti e la carne
Sinonimo di vitalità e vigore, ma anche cibo primordiale dell’uomo, la carne racchiude in sé molteplici significati e sfumature. E cosa succede quando viene scelta dagli artisti come materia prima del loro gesto creativo? Un excursus su un legame tutt’altro che banale.
Per dipingere una natura morta è necessario che il suo soggetto sia stato in precedenza vivo. Ovvio. Come pure è scontato che, insieme a frutta e verdura, nei quadri del genere siano spesso raffigurati animali di varie specie: ittiche, volatili o mammifere. La spiccata tensione per l’esagerata adesione alla realtà ha portato alcuni artisti a prendere in esame soltanto alcune parti anatomiche dei soggetti dipinti. E da qui il buon gusto dell’estetica rischia di scivolare nell’esasperazione che solletica il perverso gusto dell’uomo carnivoro che, già dalle immagini, comincia ad assaporare il piacere sinestetico della masticazione.
Facciamo un salto all’indietro nel tempo, di mezzo millennio, e ci troviamo di fronte al grande pannello (115,6 x 168,9 centimetri) dipinto nel 1551 da Pieter Aertsen, dal titolo Banco di macelleria, con Sacra Famiglia che distribuisce elemosine, dove un barlume di simbolismo evangelico raffigurato sul fondo è soffocato da una cornucopia di salsicce, trippe, fegati e zampetti che ben poco hanno di mistico, se non una poco credibile allusione al memento mori che ci osserva dall’occhio spalancato nella testa bovina in primo piano. Poi sono giunte la Bottega del macellaio di Annibale Carracci e la Macelleria di Bartolomeo Passerotti e infine Rembrandt si è cimentato con una “copia dal vero” di un bue scuoiato dal quale, tre secoli dopo, Francis Bacon si è ispirato per Figure with Meat. I differenti stili degli artisti si sono più o meno soffermati sui dettagli, vagando dall’entusiastico fervore lavorativo dei personaggi che squartano bestie fino a più riflessivi e (forse) filosofici primi piani di carcasse sospese che quasi alludono a un principio di putrefazione.
CARNE E CIBO
Molto più vivaci sono invece le immagini iperrealistiche di Marc Quinn realizzate nel triennio 2011/2013. Gigantesche tele dipinte a olio che giocano su un doppio dualismo: quello tra il figurativo e l’astratto, con in primo piano un ammasso di bistecche che le rende leggibili in quanto tali, ma anche una composizione di rossi (carne) e bianchi (il marmorizzato di grasso e nervi); e poi il contrasto tra l’appetibile e lo scostante, dove “una persona può rifiutare l’idea di uccidere un animale e vederne la carne cruda, per poi sedersi al ristorante e gustarsi una bistecca”. Non è questione di fisime vegetariane, è “soltanto un paradosso morale cui l’uomo si trova a dover far fronte”. L’insondabile confronto tra carne viva e carne come cibo. Ben rappresentato dal film Resurrection, realizzato nel 1969 da Daniel Spoerri e da lui così riassunto: “Comincia con un pezzo di merda che esce dall’uomo e poi si svolge tutto alla rovescia: l’uomo che mangia la carne, la compra, il macellaio la prepara, il bue al macello, il bue nel prato e il bue che defeca. In tutto questo mi interessa la struttura circolare che mette in relazione vita e morte”.
Il cibo e la carne. E se la carne è cibo, è pure sesso, e quanto è difficile identificare una linea di confine, soprattutto quando i due istinti primari si fondono in una performance, come nella storica Meat Joy (1964) di Carolee Schneemann. La carne del desiderio e quella del nutrimento: guardare, palpare, toccare, odorare, sentire (in tutti i sensi) e poi portare alla bocca, senza rendersi conto se il bacio si possa trasformare in un morso, se la prima forma di apprendimento del neonato che porta tutto alle labbra possa giungere a coincidere con le stesse labbra che esalano l’ultimo respiro.
SUPEREROI IN CARNE E OSSA
Il cibo e la carne. Il primo passo avanti nella storia dell’alimentazione umana. Dopo le bacche e le radici, la consistenza fibrosa di un muscolo ancora sanguinante e che soltanto un minuto prima palpitava di vitalità, di vigore. E forse per questo lo si può prendere, ritagliare e adattare fino a formare un vestito, un simil-primitivo rivestimento del corpo fatto con le componenti di un corpo altrui. Viene subito alla mente il sensuale Meat Dress indossato da Lady Gaga quando è stata premiata agli MTV Video Music Awards del 2010. Ma, come spesso accade, c’è stato chi prima di lei ha avuto una simile idea. Nel 2001 l’artista cinese Zhang Huan si è fatto rivestire da bistecche per assumere, strato dopo strato, la muscolosa immagine di un supereroe. Ironia? Autocritica? Dove sta il confine tra il vero e il falso? Tra le aspirazioni dell’umano e la falsità di una messa in scena.
Con tutt’altra intenzione, se non addirittura completamente contraria, la canadese Jana Sterbak ha proposto, nel lontano 1987, Vanitas: flesh dress for an Albino Anorectic. Il titolo riconduce alle classiche vanitas barocche, rappresentazioni simboliche del “vanus”, del vuoto, dell’inesorabilità del trascorrere del tempo, della natura effimera di tutto ciò che ci circonda: il vestito e la moda trovano il loro vero significato nel continuo mutamento. E in opposizione alla presunta forza del supereroe di Zhang Huan, l’antieroina Jana Sterbak non fa altro che mettere in mostra la più che reale precarietà dell’esistenza. Che fare allora per continuare a sentirsi vivi? Forse addentarsi un braccio o una coscia, come nella performance Trademarks di Vito Acconci, in una forma di quasi autocannibalismo? Un coraggioso atto d’arte carnivora vera.
‒ Carlo e Aldo Spinelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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