Un virus chiamato professionalismo
Oggi il sistema dell’arte tende a stritolare il talento, imponendo, soprattutto alle nuove leve, regole ferree e omologate per accedere al mainstream. Il risultato è che in virtù di un imperante professionalismo si rischia di perdere un po’ di quella sana freschezza creativa spesso ascritta agli “unprofessional”.
“Il professionalismo trasforma la persona in un brand”, afferma Andrew Bernardini in un recente editoriale uscito sul magazine online Momus. Il critico d’arte americano, che scrive stimolato dalla lettura di un altro articolo sullo stesso tema uscito pochi giorni prima su Artnews e firmato da Daniel S. Palmer, si lancia in un’appassionata difesa dell’amatorialità in arte, vista come unica possibile garanzia di autenticità e libertà in un mondo sempre più standardizzato e schiavo del marketing. “Non sto dicendo che gli artisti non debbano essere pagati per il proprio lavoro”, prosegue Bernardini, “ma dobbiamo rifiutare l’idea che l’assegnazione di un valore sia subordinata solo alla vendibilità delle opere e al riconoscimento da parte delle istituzioni. I sistemi cercheranno sempre di fagocitarci, ma dobbiamo resistere all’efficienza dei loro meccanismi con la delicatezza della nostra umanità. Essere ‘non-professionali’ equivale a rivendicare il nostro diritto di essere umani contro queste macchine”.
La situazione, in realtà, è ancora più complessa di come viene descritta in queste, pur efficaci, pagine: da un lato abbiamo il sistema dell’arte con i suoi ingranaggi stritola-talento, pronto a omologare i giovani artisti, spesso freschi di accademia, all’interno di un rigido programma fatto di mostre selezionate, studio visit con i curatori che contano, residenze nei giusti musei e contatti con le gallerie di tendenza; contemporaneamente, fuori dalle solide mura di questa élite, assistiamo alla crescita esponenziale e non regolata della creatività amatoriale, movimento che trova in Internet un brodo di coltura eccezionale, oltre che una vetrina efficace. Il rapporto tra queste due realtà è ambiguo, quando non schizofrenico: il mainstream guarda con interesse all’underground (come ha sempre fatto) ma ci tiene a differenziarsi, difendendo strenuamente i propri diritti acquisiti contro l’ondata degli “unprofessionals”; dall’altro lato, sono molti gli outsider che ambiscono a entrare nel circolo degli eletti, e che per questo si sforzano di aderire al protocollo richiesto, sia in termini di prodotto (l’opera) che di brand (la gestione della propria immagine).
PERICOLI MANAGERIALI
Già nel 1964 Alvin Toffler, in un saggio seminale sul consumo culturale, scriveva: “L’attacco al mondo degli amatori, come l’attacco al consumatore di cultura, è basato più sulla paura che sui fatti. I colti amanti dell’arte di lunga data, che hanno a cuore la propria ‘anzianità’ come i membri del vecchio sindacato degli idraulici, temono i nuovi arrivati. Gli è stato detto che sono un’élite e che l’élite ora è minacciata. Così attaccano, sempre attenti a sottolineare come il loro scopo non sia la conservazione di un privilegio, quanto la difesa dell’eccellenza”.
La crisi dell’arte contemporanea, che spesso viene attribuita a un problema di linguaggio oppure alla supposta incapacità di comunicare con il pubblico, risiede tutta nelle motivazioni del gesto artistico, sempre più influenzate da questa rovinosa tendenza al professionalismo. E non parliamo, si badi bene, di una generica inclinazione al mestiere, né vogliamo celebrare la purezza dell’artista isolato. Non si intende attaccare il sistema dell’arte tout court o polemizzare sullo strapotere del mercato. Quello che vogliamo sottolineare qui è la pericolosa infiltrazione del modus operandi manageriale all’interno della ricerca artistica. Nel modo in cui le opere vengono concepite, nelle strategie di promozione applicate scientificamente, nei deliranti tentativi di auto-storicizzazione.
MANCANZA DI MOTIVAZIONI
Il vero problema quindi non risiede nel mezzo utilizzato, né nella capacità di essere più o meno originali (“Non importa da dove prendi le cose”, scriveva Godard, “ma dove sei in grado di portarle”); la debolezza che percepiamo nell’arte di oggi – in quella più visibile, s’intende – coincide con un vuoto motivazionale. Raramente avvertiamo dietro alle opere quell’urgenza interiore che è da sempre il motore primario dell’arte. Ma questo non vuol dire necessariamente che quell’urgenza sia scomparsa. Magari è solo stata messa in minoranza, svalutata, ricacciata in basso nella scala dei valori. Una scala di valori che mette sempre al primo posto la capacità di promuoversi, di vendersi, di scalare il sistema fino alla sua cima. Ma da sempre i veri innovatori sono quelli che non hanno paura di sbagliare, di perdere, di andare controcorrente. E come scriveva Marshall McLuhan nel suo Il medium è il massaggio (1967), “solo l’amatore può permettersi di perdere”.
‒ Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37
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