Di memoria e oblio. Intervista a Christian Boltanski
Parola all’artista francese che ha appena inaugurato una grande mostra diffusa nel tessuto urbano e culturale di Bologna. Una riflessione sulla memoria e il tempo che scorre, sulle leggende individuali e la Storia collettiva, sulla permanenza e la transitorietà dell’opera d’arte.
Christian Boltanski (Parigi, 1944) è il protagonista di un grande progetto dedicato alla memoria. La città di Bologna lo ha voluto, di nuovo, per celebrare diversi anniversari tra cui quelli legati alla tragedia di Ustica. L’artista francese, già autore dell’installazione che circonda il relitto dell’Itavia nel Museo per la Memoria di Ustica, insieme al curatore Danilo Eccher ha orchestrato un intervento che vede il fulcro nella mostra al MAMbo e vari satelliti disseminati nella città, con un’attenzione particolare alle periferie.
Lo abbiamo incontrato poco prima dell’inaugurazione della grande retrospettiva. Con lui abbiamo parlato di memoria e di oblio, di opere tra il permanente e l’effimero, di come si struttura una mostra e lui stesso, con un pizzico di ironia, ci ha confessato che “è come una maionese: puoi avere uova fresche e un ottimo olio d’oliva, ma qualche volta funziona e qualche volta no, così se aggiungi un po’ di pepe puoi salvare la maionese”.
Vorrei partire da Bologna, dalla città prima che dal progetto. Quest’anno si celebrano diversi anniversari, alcuni che la riguardano personalmente (la prima mostra a Villa delle Rose nel 1997, l’inaugurazione dell’installazione per Ustica, 2007). Qual è il suo rapporto con questa città? Come lo descriverebbe?
Tutti i rapporti nascono per caso. Vent’anni fa Danilo Eccher mi chiese di pensare a una mostra per Villa delle Rose, non sapevo molto di Bologna, fu l’occasione per poter passare del tempo qui e per lavorare in città. Amo davvero questa città, non ho difficoltà a dire che è quella che preferisco in Italia perché credo sia una città “vera”. Firenze, per esempio, è meravigliosa certo, ma non mi appare così vera. Di Bologna amo il fatto che è piena di studenti, le strade sono sempre vive, recentemente ho notato molti turisti, ma la città sembra accogliere tutti, non solo i turisti. Inoltre di Bologna mi ha sempre affascinato il suo essere da una lato una città ricca, benestante e dall’altro la sua storia legata politicamente alla Sinistra storica, poi alla Resistenza, a un impegno civile che sento ancora vivo.
La storia di Bologna, nel recente passato, è legata anche a fatti tragici come la strage di Ustica certo, ma anche alla bomba alla Stazione. Nel suo lavoro ha cercato legami con questi episodi?
Hai già visto la mostra? In realtà i miei lavori partono sempre da me stesso, dalla mia esperienza. La grande montagna che si trova al centro della Sala delle Ciminiere (Volver, 2015-2017) è rivestita di coperte isotermiche – quelle che si usano per dare conforto alle persone soccorse in mare –, in questo lavoro ognuno può vedere quello che vuole, si può trovare un riferimento alle immagini che anche io ho visto della strage alla stazione, con i corpi coperti di teli e tessuti vari, o si può pensare immediatamente agli immigrati che sbarcano ogni giorno sulle coste italiane. Per me, però, le suggestioni devono rimanere aperte, non provo a fare arte politicamente impegnata, ho scelto quel materiale perché apparentemente è molto bello, ha il colore dell’oro, e allo stesso tempo evoca immagini di dolore.
E il resto della mostra?
Ho costruito la mostra pensando a una chiesa, ispirandomi allo spazio che mi ricordava una navata centrale con delle cappelle laterali. Il percorso espositivo parte dalla nascita, i battiti cardiaci nel buio della prima stanza (Coeur, 2005), un Départ (2015) che attraverso le altre opere giunge a un Arrivée (2015) nell’ultima stanza bianca, eterea, fiorita, come qualcosa che sta dopo la morte (Animitas (Blanc), 2017). Forse ho pensato a una chiesa perché mi è capitato di trovare chiese aperte d’estate in Italia, di entrarvi e trovare una strana luce, forti odori, canti in sottofondo e una frescura diffusa, ho pensato di rendere questa dimensione in cui ognuno può sedersi e pensare. Una piccola pausa.
Nel suo lavoro di artista spesso si trova a operare incrociando la memoria individuale e quella collettiva, il ricordo di un singolo e l’identità di una comunità. Come è possibile unire questi due strati della realtà che a volte sembrano così distanti?
Se la Grande Memoria è nei libri di storia, la piccola memoria risiede nel sapere dove si mangiano le migliori tagliatelle o nel conoscere le regole di un gioco e, ahimè, spesso questi dettagli muoiono insieme a noi. Io cerco di salvare questi ricordi minimi pur sapendo che è assolutamente impossibile. Ciascuno di noi potrebbe raccontare una storia interessante, la sua storia, ciascuno di noi potrebbe scrivere un libro di memorie, sono consapevole che è un’utopia, ma vorrei collezionare tutti questi libri. Tutti hanno ricordi dei loro nonni, difficilmente invece sappiamo qualcosa dei bisnonni. Ognuno di noi è unico e per questo siamo molto fragili, nell’arco di due generazioni siamo destinati a scomparire.
Un ruolo particolare nel progetto Anime. Di luogo in luogo è affidato allo sguardo, o meglio agli sguardi. Gli occhi dei volti partigiani che compongono Les Regards sono stampati a grande dimensione su cartelloni pubblicitari nelle periferie. C’è uno sguardo dell’artista sulla città e c’è uno sguardo della città sul lavoro dell’artista. Come è nata questa parte del progetto e che valore ha l’intervento nel paesaggio urbano?
Credo che quegli occhi ci stiano guardando, che attraverso di loro abbiamo la possibilità di vedere noi stessi, credo che stiano a guardia di una memoria. Non ho un’unica interpretazione, o una che possa essere più giusta di un’altra. Penso che un passante di fronte a uno dei Billboards possa chiedersi “chi è questa persona?”, in questo caso infatti l’immagine è tagliata esclusivamente sugli occhi, non c’è un’identità precisa, quegli sguardi possono essere di chiunque, sono come noi, siamo noi. Adoro lavorare anche fuori dai musei e dalle gallerie, ultimamente i miei progetti assumono grandi dimensioni, vengono costruiti per essere distrutti e trovano collocazione in ex fabbriche, chiese, teatri. Se nel Rinascimento gli artisti venivano invitati dai signori, per me oggi è come essere stato invitato direttamente dai cittadini bolognesi, è come se avessi ricevuto una commissione, per questo è stato naturale pensare agli interventi nella città e per la città.
Molte sue opere contengono, o sono letteralmente composte di, oggetti trovati, appartenuti a persone defunte, abiti consunti, immagini fotografiche spesso senza indicazioni identitarie. Tali tipologie di materiali fanno parte dell’installazione per il museo di Ustica, ma saranno anche al centro dell’opera Réserve, realizzata per l’ex Bunker del parco Lunetta Gamberini. Che rapporto ha con queste tipologie di oggetti? Cosa la spinge a collezionarli, recuperarli e utilizzarli come materia artistica?
Per me i vestiti usati, le registrazioni dei battiti cardiaci, le immagini fotografiche sono tracce di identità perdute, oggetti di cui il soggetto è scomparso. Tutti possono condividere l’esperienza di trovare le scarpe di un caro estinto e vedere l’impronta nella calzatura, la sua presenza in assenza. Quello che sto cercando di fare nei miei lavori più recenti è creare una sorta di leggenda, sono convinto che un racconto, un mito, sia più potente di un’opera. A settembre andrò di nuovo in Patagonia per seguire la costruzione di una grande tromba che, suonata dal vento, riprodurrà il verso delle balene, un’opera molto difficile da trovare perché situata in un luogo remoto, senza telefoni o strade tracciate. Ciò che mi interessa è la sopravvivenza del racconto di un uomo che ha costruito quell’opera, non l’opera in sé.
Il mio lavoro attualmente si divide in due tipologie: una serie di lavori atti a creare una mitologia e una serie di installazioni di grandi dimensioni ricostruite ogni volta che vengono presentate. Come nel caso di Personnes, partita dal Grand Palais di Parigi e approdata a Milano, Tokyo e New York, distrutta e ricostruita ogni volta come accade ai templi giapponesi.
Parte integrante del progetto per Bologna sarà la performance/ambiente Ultima. In questo caso il coinvolgimento sensoriale (acustico, visivo, immersivo), che ritorna anche nelle grandi installazioni in mostra, viene declinato secondo la temporalità effimera del teatro. Come è stata realizzata la composizione? E in che modo il suo processo creativo si misura con il teatro, sia in termini di architettura (lo spazio) sia in termini di logiche interne (regia, drammaturgia)?
Ho realizzato Ultima insieme al musicista Franck Krawczyk e allo scenografo Jean Kalman. Ciò che abbiamo provato a costruire è un’opera che si collochi tra le arti del tempo (come il teatro) e le arti dello spazio (come la scultura). Si potrebbe descrivere come una grande installazione animata da composizioni musicali e performance attoriali. Come accade nella mostra al MAMbo, ho voluto che le persone, il pubblico, fossero parte dell’opera, che le trasparenze che ho creato venissero animate da ombre vive.
– Claudio Musso
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