Abbandono estatico. L’editoriale di Fabrizio Federici
Il tema della perdita della memoria è centrale nella ricerca artistica contemporanea. Ecco perché e quali sono gli artisti che ci lavorano nella maniera più poetica e costruttiva.
Dimenticare è un difetto, e un diritto. Un diritto come quello di essere dimenticati, in una società che, dopo l’avvento della Rete, sa tutto di tutti. Nel contempo, l’enorme quantità di dati che abbiamo a portata di click è più fragile che mai, e di continuo rischia di essere dimenticata: in mancanza di supporti démodé ma di comprovata efficacia, i dati possono divenire inaccessibili per la rapida evoluzione tecnologica (chissà che cosa c’era in quei floppy disk ritrovati in fondo a un cassetto…), o perché i siti non sono più in funzione o sono stati eliminati, o perché cambiamo casella di posta elettronica o telefonino.
Scompaiono in un solo istante intere corrispondenze, scambi di messaggi… Non c’è davvero da invidiare gli storici di domani.
LA MEMORIA E LA SUA PERDITA
Forse per questa forza inaudita che l’oblio sta segretamente conquistando, il tema della perdita della memoria è così centrale nella ricerca artistica contemporanea.
Prendiamo un ambito che negli ultimi anni è letteralmente “esploso”, fino a configurarsi come un vero e proprio genere: quello dei lavori relativi a luoghi abbandonati (e dimenticati). Lavori spesso di grande fascino, benché la sovraesposizione mediatica di ospedali psichiatrici in rovina e stabilimenti termali ormai deserti rischi di stancare lo spettatore: di luoghi abbandonati abbondano i musei e gli spazi espositivi, i siti Internet, le gallerie fotografiche dei quotidiani online.
Tra i lavori di artisti italiani, merita ricordare l’Atlas Italiae di Silvia Camporesi, mentre molte opere interessanti giungono dall’ex blocco sovietico, dove la sostituzione di una civiltà a un’altra verificatasi una trentina d’anni fa ha condotto a una fioritura di straordinari luoghi inutili: si può menzionare il “documentario poetico-sperimentale” Monument (2015) di Igor Grubić, composto da nove ritratti di imponenti memoriali di cemento sparsi per la ex Jugoslavia, e dimenticati tra le selve e i pascoli; o le bellissime istantanee che il giovane fotografo russo Danila Tkachenko ha dedicato alle monumentali infrastrutture sovietiche che giacciono abbandonate in aree remote, in un paesaggio ghiacciato dove tutto è bianco.
ROVINE E MACERIE
Si potrebbe pensare, come antecedente a questa diffusa infatuazione per l’abbandono, al culto delle rovine che per secoli ha percorso la cultura occidentale: le rovine, tuttavia, erano sì abbandonate (e neanche sempre e neanche in toto) ma non erano certo dimenticate, erano sempre presenti all’immaginario, come testimonianze di una passata grandezza e dell’inevitabile decadenza delle cose di quaggiù.
I luoghi che questi artisti-archeologi riportano alla luce, invece, sono caduti nel dimenticatoio, perché remoti e sconosciuti, o perché sepolti negli interstizi dei tessuti urbani. Quando l’arte, strumento per eccellenza del ricordo e della trasmissione, li recupera, ne celebra poeticamente l’abbandono e li riscatta allo stesso tempo dall’oblio: il cortocircuito che ne deriva può essere di straordinario impatto.
– Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #4
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