Thea Djordjadze e Fausto Melotti. La strana coppia in Triennale
Triennale, Milano – fino al 27 agosto 2017. Ventuno teatrini di terracotta e nove disegni dello scultore di Rovereto impressionano le superfici metalliche dell’artista georgiana. Al primo piano della Triennale di Milano, l’allestimento ostensorio dona continuità materica e temporale a un dialogo inatteso.
Al primo piano, la sala che si allunga sul lato destro dell’Impluvium sembra librarsi. Thea Djordjadze (Tbilisi, 1971), nell’assecondare la ricerca di Lorenzo Giusti ed Edoardo Bonaspetti, lascia entrare luce e paesaggio circostanti, riportando alla trasparenza i vetri delle gigantesche portefinestre. L’architettura di Muzio, a seconda delle diverse ore del giorno, si intromette cauta, proiettando sfuocate ombre portanti, fra le linee orizzontali e verticali che contengono Abbandonando un’era che abbiamo trovato invivibile. Raffinatissimo, inedito omaggio alla contemporaneità presente e ultraterrena di Fausto Melotti (Rovereto, 1901 – Milano, 1986).
TEATRINI E METALLI
La mostra, a un primo sguardo, si dispone in attesa, attorno alle visioni raccolte, coagulate dalle edicole di terracotta e di cartone dell’artista trentino, prediligendo un percorso storico e formale perfettamente in linea – anche se diacronico – costellato da ventuno teatrini. Lavori che accompagnano l’intero arco della produzione melottiana, da Il diavolo che tenta gli intellettuali (1939), passando attraverso Meditazione teologica (1959) per arrivare infine a Il passo della zingara (1983). Ogni diorama selezionato dal curatore della mostra, Lorenzo Giusti, sembra ritrovare, al di sopra degli orizzonti metallici, industriali di Djordjadze, la gravità del sogno e la misura della fragilità, restituendo nuova luce, nuove inflessioni e riflessioni ad emblemi come Le Maldicenti (1962) o Il Museo (1959). Composizione al di sopra della quale, per la prima volta, Melotti inserisce l’elemento scultoreo metallico all’interno di uno spaccato in miniatura, una sezione verticale e frontale di un edificio massimizzato, finito, assente, reso deserto dalla terracotta non smaltata. Che intrappola e sminuisce la presenza umana.
I DISEGNI E IL VORTICE CENTRALE
Sebbene anche i nove disegni a matita su carta aggiungano ulteriore, lucida incompiutezza alla sintetica intuizione scultorea di Melotti, il rigore delle lastre di metallo colorato, dell’acciaio inox, delle saldature, dei solidi piramidali e delle linee poligonali prolungate da Djordjadze restituiscono alla ricerca frusciante, continua dell’artista italiano un delicato, seppur netto, sostegno a esistere, trasformando ogni piano in nuova superficie utile, in un teatro che si protende oltre i confini del teatro.
La mostra, infatti, non teme il vuoto di un vortice centrale che preserva e, infine potenzia, alle pareti, altari decentrati ma devoti all’immaginazione.
– Ginevra Bria
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