Capricci (I). Nostalgia e civiltà
Al via una nuova serie della rubrica Inpratica. Stavolta la riflessione prende le mosse dal duplice valore del sentimento nostalgico e si dipana attraverso la storia dell’arte, la musica e il tempo presente.
“I wanna know everything /
I wanna be everywhere…”
Nine Inch Nails, I Do Not Want This (The Downward Spiral, 1994)
“Alla fine si scopre che gli esseri umani
non sono altro che tanti riflessi negli
occhi degli altri”.
Anne Tyler, Possessi terreni (1977)
Bari, 20 giugno (a Ivan Quaroni). Certamente, la nostalgia è un motore potentissimo per la creatività, e in generale per il progetto dell’esistenza. Il problema nasce quando – con l’inizio del postmoderno, e ancor più se possibile oggi, sempre nella cultura mainstream, e nonostante il postmoderno sia finito da un pezzo – la nostalgia diventa l’UNICO motore di un’intera civiltà. In questo senso, la nostalgia è un rifugio, un’evasione, un nascondimento nei “beitempiandati” (che, per definizione, non sono mai esistiti: sono un’illusione, un’idealizzazione) per paura di affrontare il presente e il futuro, per paura di accedere al nuovo. Così, un nuovo intessuto di vecchio, nutrito di vecchio, è la consolazione massima: ci protegge dall’ignoto, da ciò che non conosciamo – e che probabilmente non vogliamo conoscere. L’Italia è, se possibile, la patria d’elezione di questo atteggiamento, in ogni suo territorio (arte, cultura, politica, economia, società, costume). La retrowave (o synthwave) è un ottimo esempio: molto bella, molto raffinata, molto piacevole, ma dopo un po’ uno ha la sensazione netta – e abbastanza agghiacciante – che, a parte la riproduzione reiterata e la combinazione digitale, più vera dell’originale, di questo mondo Anni Ottanta immaginario, romantico e zuccheroso fatto di colonne sonore, miami vice, venice beach, sunset boulevard, ocean drive, ecc. ecc. …dentro questa musica sia VUOTA. ;)
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21 giugno. Le scoperte dell’arte. Mio cugino Carmine nel salone di casa nostra, con mia madre che lo aiuta a comporre i disegni di dettagli architettonici per l’ora di storia dell’arte al liceo scientifico: particolari di colonne, capitelli, facciate in chiaroscuro su bianchi fogli A4 Fabriano. Io a otto anni che guardo mia madre sorridere. Poi, quattro o cinque anni prima: le scene terribili e meravigliose del Giudizio Universale sfogliate sul catalogo gigantesco di Michelangelo – che ho ancora adesso in soggiorno, sull’ultima mensola in alto a destra, vicino ai faretti. Credo che tutta intera la mia idea di arte e di creazione discenda da quelle riproduzioni fotografiche – da quella forma epica e acuta di disperazione, di degradazione, da quello spazio cosmico costruito unicamente con corpi umani, che nega la nozione stessa di spazio e che dissolve la parete reale della cappella – da quell’orologio apocalittico che è lo strano Gesù senza barba, dagli occhi sbarrati di molti personaggi, dalla sensazione ultima che, in fondo, non ci sia salvezza, per nessuno, che anche la beatitudine sia una condanna imposta (salire su, venire tirati su, strattonati), e che questa sia anche la consolazione definitiva – quella pelle scuoiata, al centro un viso appena accennato, ma riconoscibilissimo.
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22 giugno. In che cosa risiede la nostra – sgarrupata – saggezza?
In gesti antichi, umili, semplici.
Nei muri compositi e rustici dei borghi di Querceto e Montegemoli, per esempio, di un’eleganza campagnola (molto diversa dai muri sbreccati, disadorni, scarnificati del Sud…) – l’Italia sepolta è la superficie di questi muri, una lunga storia biologica – non percepita esternamente, archeologicamente.
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Una specie di pazzoide incorruttibile.
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Cotenne. Frammenti volatili. Distopie sconclusionate. Un’esplicita richiesta: l’algoritmo che dodici mesi fa l’aveva fatta vincere. I cocci. Contestazioni sbrindellate. Pezzi luccicanti (verde rosa argento), sotto la griglia, al sole e all’ombra. Coriandoli. Un dribbling per salvare il sistema; bisogna far sognare i popoli…
Il tempo è un filo che si srotola – giorno dopo giorno, viaggio dopo viaggio, treno dopo treno, lezione dopo lezione sono sempre qui a riprendere il filo – gli album sono sempre lì, sul fedele lettore mp3 e nelle cuffie – e già a un anno componevo alcune parole brevi, mentre a due imbastivo certo storie per i miei parenti, in “veste da camera” (rossa e blu), occhiali con la montatura spessa e aria da conferenziere – e Mike Patton registrò un disco con John Zorn nel 1998, Weird Little Boy, un’altra delle sue strabilianti collaborazioni – tutto pieno di rumori, suoni registrati, sibili e balbettii – sembra facile mettere insieme parola dopo parola, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo – e quando i miei amici sono come impazziti dietro questo sogno marcio decrepito di borghesia, io semplicemente ho cambiato amici – che cosa volevo dire? Ah sì: che scrivo, scrivo, ma alla fine non lo so mica per chi scrivo, quelli a cui ‘ste cose arrivano – i pensieri le idee i ragionamenti – certo, ci sono quelli con cui parlo e mi confronto di persona, quelli che mi scrivono – e poi c’è Facebook: ma che cos’è, veramente, Facebook?
– Christian Caliandro
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