Mescolarne di tutti i colori. L’arte e l’insalata
La premiata ditta Spinelli father & son prosegue la sua indagine su cibo e arte. Stavolta parlano di tutte quelle opere che hanno a che fare con l’insalata. Dal capolavoro dello chef Enrico Crippa fino a Warhol che illustra un curioso ricettario. Passando per un Anselmo alla lattuga e per un’artista che trasforma l’insalata in un happening.
È fondamentale saper scegliere le foglie giuste. E non solo quelle, perché nell’insalata ci si può mettere un po’ di quasi tutto. Fosse anche soltanto per aggiungere il rosso del pomodoro o l’arancione dell’arancia o l’arcobaleno dei petali dei fiori, come nell’insalata da Guinness che propone Enrico Crippa, chef tristellato Michelin e triforchettato Gambero del ristorante Piazza Duomo di Alba.
La sua variegata insalata, a seconda delle stagioni, può comprendere da 21 fino a 121 ingredienti, alcuni dei quali del tutto sconosciuti ai comuni mortali, come il crispino e la gentilina, la mordigallina e la pimpinella.
LATTUGA POVERISTA
Un’insalata molto più “povera” è invece quella presentata nel 1968 da Giovanni Anselmo e così descritta da Jean-Christophe Ammann: “Una lastra di granito è tenuta sospesa, mediante un filo di rame, a un pilastro anch’esso di granito. Fra pilastro e lastra si trova, pressata, una lattuga. Questa, dopo breve tempo, appassisce e bisogna sostituirla, altrimenti la lastra, per il diminuito volume del vegetale, cadrebbe”.
Soprannominata Scultura che mangia, coniuga l’organico e l’inorganico calati insieme nel tempo che, non solo simbolicamente, mostra gli effetti dell’entropia e della degradazione: l’eternità intaccabile del marmo sorretta dalla fragile deperibilità di un cespo d’insalata.
HAPPENING VEGGIE
Rimane viva e vegeta(le) per un tempo minore l’insalata protagonista di un’altra celeberrima opera d’arte, la Proposition #2 – meglio nota come Make a Salad – di Alison Knowles. Questa performance rispetta le regole fondamentali del movimento Fluxus: portare l’arte nella vita quotidiana e la vita nell’arte. Per cui, nell’ottobre del 1962, nella sede dell’ICA – Institute of Contemporary Arts di Londra, alla presenza di un nugolo di spettatori incuriositi ma per nulla sbalorditi e accompagnata da un sottofondo musicale, la performer ha tagliato finemente tutti gli ingredienti, li ha arricchiti con il condimento per poi servire il saporito risultato finale al pubblico presente. Perché l’artista ha scelto proprio l’insalata per esibirsi in un’azione “qualunque”, trasformata in arte dalla teatralità della sua cerimonia? Sostanzialmente per la semplicità (leggi banalità) della sua realizzazione, che la rende davvero alla portata del più impreparato dei cucinieri. Ma anche e soprattutto perché l’insalata non è una preparazione univoca, non rispetta un’unica ricetta: “Pensa a quanti tipi di insalata si possono preparare. Infiniti. E ogni volta è sempre e soltanto insalata”. Ne consegue che ogni successiva esecuzione della performance ha assunto una connotazione e un “sapore” diverso.
Ad esempio, il 24 maggio del 2008, alla Tate Gallery, Alison Knowles ha esasperato l’atmosfera rituale davanti a un folto pubblico e con il solito sottofondo musicale. L’artista stava su un palco sopraelevato, assistita da una brigata di chef che tagliavano carote e pomodori, sminuzzavano soncino e indivia, scarola e radicchio, senza scordare champignon, rapanelli e cipolla. La quantità totale era di circa un quintale e veniva via via rovesciata al di sotto su un larghissimo telo verde plastificato e spinto su e giù da una dozzina di persone che, con un movimento ritmico, facevano rimbalzare l’informe materia prima per mescolarla al condimento, anch’esso rovesciato dall’alto: un paio di brocche d’olio d’oliva, una bottiglia di aceto e manciate di sale a pioggia. Make a Salad non ha dunque una partitura rigida e restrittiva, non deve rispettare tempi, scenografia (e ricetta); la sua libertà ha solo un limite: “Esiste un modo sbagliato per eseguire la performance? Forse, se l’insalata risulta immangiabile…”.
LE FOGLIE VERDI DA GILARDI A WARHOL
E poi ci sono le insalate davvero non commestibili, quelle finte perché disegnate, dipinte o scolpite: dai vari tappeti natura di Piero Gilardi (protagonista in questi mesi di una straordinaria mostra al Maxxi di Roma) con pannocchie di mais, cavoli e vegetali assortiti alla Nasturtium Salad dipinta nel 1959 dal maestro della Pop Art James Rosenquist.
Sempre nello stesso anno e nel medesimo ambito, anche Andy Warhol si è cimentato con una coloratissima insalata dagli ingredienti decisamente male assortiti, secondo i nostri gusti: gelatina di frutta e code di aragoste decorate con capperi, uova di piviere, asparagi e pancetta. Gusti horror? No, humour. La ricetta è tratta da un libro dal titolo Wild Raspberries (che significa “lamponi selvatici” ma anche, in slang, “pernacchia”) in cui Warhol ha illustrato le fantasiose invenzioni culinarie di Suzie Frankfurt, una famosa arredatrice e decoratrice di interni che ha voluto fare una parodia di una certa cucina francese la cui ricercatezza e raffinatezza rasenta l’assurdo. La Salade de alf Landon (questo il suo nome) compare insieme all’Omelette alla Greta Garbo (senza uova e da gustare da soli a lume di candela) e al Maialino alla Trader Vic’s, da ordinare nel famoso ristorante e farlo ritirare dallo chauffeur con la Cadillac. Uno dei primi lavori artistici di Warhol, ma già con il recondito concetto di factory: testi della Frankfurt, scritte calligrafiche di sua madre Julia Warhola, tiratura in sole trentaquattro copie colorate a mano da un gruppo di quattro amici che vivevano al piano di sopra…
– Carlo e Aldo Spinelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37
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