Critica viva. Conservazione versus trasformazione
La tendenza dell’arte contemporanea sembra coincidere con una accettazione dello status quo, lasciandone intatta la struttura. Mandando in fumo decenni di rivendicazioni dei diritti e lotte per conseguirli.
Un’idea di futuro molto luminosa, molto comoda, molto a proprio agio – e sostanzialmente acritica. Un meraviglioso spazio trasparente, tutto di vetro, vuoto; modi differenti di far pesare le nozioni le idee le soluzioni i prodotti i progetti – e una visione del tempo che verrà.
Questa nuova classe creativa che si affaccia sulla scena globale accetta il mondo così come gli è stato consegnato (e come forse diventerà), ha deciso di trarre da esso ogni beneficio possibile, e di intervenire insomma solo sulla sua “forma”, ridisegnandola. Non sulla struttura che sottende questa forma (tanto meno sulle cause di questa struttura, e del suo funzionamento).
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“A vero dire, avrei potuto rispondere a chi mi avesse interrogato che Combray comprendeva anche altre cose ed esisteva anche in altre ore. Ma dato che ciò che ne avrei ricordato mi sarebbe stato fornito solo dalla memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, e siccome le informazioni che essa ci dà sul passato non conservano niente di esso, mai mi sarebbe venuta voglia di pensare a quel resto di Combray. Tutto questo era in realtà morto per me” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto – Dalla parte di Swann, 1913).
A partire dalla Rivoluzione Industriale, il lavoro era necessario alla produzione e dunque al profitto, e in quanto tale veniva retribuito. In questo momento storico (gli ultimi trenta-quarant’anni: l’età del postmoderno) il profitto ha pressoché eliminato da sé, come condizione necessaria, il lavoro di massa. E lo sta ancora facendo. La concentrazione progressiva di ricchezza avviene così a discapito del lavoro individuale e collettivo – che dunque, in pratica, non si sa e non sa più che cosa sia. Il lavoro diviene “spettrale”: non è più un diritto, ma al massimo qualcosa che viene graziosamente concesso, in forme peraltro sempre più deteriorate.
Gli unici lavoratori effettivamente “richiesti” sono in fondo quelli davvero necessari al funzionamento di questa fiction, di questo enorme dispositivo finzionale che serve a fare-i-soldi-con-i-soldi e che ha al centro lo spettacolo (Guy Debord): perciò i funzionari e i manager legati alla finanza; i lavoratori della cultura che riescono a occupare posizioni decisionali (e spesso neanche quelli); determinati operatori dell’arte contemporanea (territorio finzionale per eccellenza); mentre tutti gli altri sono attualmente lavoratori di una certa età, garantiti in base al regime precedente (e “in scadenza”, per così dire).
Il precariato quindi ricrea – su un’altra scala, con altre modalità e con altri effetti – le condizioni contrattuali esistenti in Inghilterra all’inizio della Rivoluzione Industriale (seconda metà del Settecento, primo Ottocento): lavoro a cottimo; contratti a tempo, di varie specie; paga “differita” ecc.
Appare sempre più chiaro che si è ricreata, a velocità sorprendente, una situazione speculare a quella pre-Marx e pre-marxista: decenni di rivendicazioni dei diritti e di lotte per conseguirli sembrano oggi evaporati senza quasi lasciare traccia – con la complicità e la collaborazione dei partiti politici e dei sindacati, ovunque nel mondo occidentale.
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La distinzione fondamentale da fare tra le opere non riguarda affatto il medium, o lo stile, o il linguaggio – ma l’attitudine.
Ci sono due tipi di artisti, infatti (che equivale a dire: ci sono due tipi di uomini): quelli che accettano le condizioni date, il mondo così come lo trovano; quelli che non lo accettano, e vogliono trasformarlo. Dunque: conservazione versus trasformazione. La vita è movimento, mutazione, evoluzione; la morte è stasi, immobilità, rifiuto del cambiamento.
La distinzione, infine, è tra l’artista che sta con i piedi ben piantati per terra e l’artista che fugge, che evade dalla realtà: “In parole povere, la nostra cultura attuale è, dal punto di vista sia evolutivo che storico, adolescente. […] Noi come cultura siamo […] sensibili a quel tipo di arte e di intrattenimento la cui funzione primaria è la fuga, e cioè tutto ciò che tira in ballo il fantastico, l’adrenalina, lo spettacolare, l’amore romantico eccetera. […] Ormai quasi tutti noi americani ci rivolgiamo all’arte essenzialmente per sfuggire a noi stessi” (David Foster Wallace, Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente [1999], in Considera l’aragosta).
‒ Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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