Fra mito e Street Art. Intervista a Paolo Buggiani
Paolo Buggiani ci ha accolto nel suo studio alle porte di Roma, nei prati assolati del parco di Veio. Immersi tra i reperti di una appassionante carriera vissuta a metà tra l’Italia e New York, è nato un dialogo su più fronti. Seguendo il filo dell’opera di un grande interprete della “disobbedienza” in arte, quando la Street Art si faceva ancora in segreto.
Osservando il panorama espositivo italiano, non di rado il tuo nome risulta associato a quello di Keith Haring, del quale, come è noto, tra 1981 e 1982, hai raccolto circa una cinquantina di Subway drawings. Forse anche a questo va addebitata, a mio avviso, la dissonanza tra il grande valore del tuo affascinante lavoro sul palcoscenico urbano e l’attenzione sin qui assegnatagli. Un percorso pienamente inserito in quella emergente scena artistica della New York dei primi Anni Ottanta a cui con fermezza e orgoglio ti riferisci usando l’espressione “Street Art”.
È una questione di luoghi. In questo caso è stata l’America. Non so cosa mi fosse successo ma non riuscivo più a toccare i colori. Quando sono tornato a New York alla fine degli Anni Settanta c’era una sorta di rivoluzione nell’aria. Nonostante non mi sentissi attratto dai movimenti che allora andavano per la maggiore, ero comunque dentro l’ingranaggio di uscita dalla pittura convenzionale. Cercavo di capire perché stavo lì, che cosa mi stava intorno, incamerando ogni stimolo per poi sputarlo fuori sotto forma artistica. Sebbene non fosse una ricerca prestabilita per creare dell’arte ma una necessità di incamerare informazioni e poi uscire fuori con delle deduzioni. In realtà, una simile operazione caratterizzava già precedentemente il mio lavoro. Negli Anni Sessanta andavo spesso nel Gargano dove mi attraevano delle situazioni moderne inserite, tuttavia, in atmosfere ancora arcaiche; e lì nascevano molti dei quadri di allora. È un mettersi in completa relazione e lasciarsi contaminare dall’ambiente che ti circonda.
Come per molti di quegli attori, la tua formazione ed esordio avvengono secondo modalità più convenzionali, e, nel tuo caso, non manca l’apprezzamento del sistema: negli Anni Cinquanta realizzi dipinti che ricevono premi e vendono bene; nel 1968 ottieni la prestigiosa Guggenheim Fellowship per le tue sperimentazioni scultoree. Dopodiché interviene un deciso cambiamento nel tuo approccio al “fare” artistico, provocando un’evasione dal registro appena descritto per una riconsiderazione del significato di tempo e oggetto.
Per quanto riguarda il tempo, quando hai la percezione di quello che racconti, di quello che vuoi trasmettere, non c’è più la preoccupazione di quanto duri l’opera. Ho fatto un ragionamento sul tempo che passa: il tempo soggettivo è misurato dalla durata della nostra vita mentre il tempo oggettivo è infinito. Nello spazio infinito una cosa che dura tre minuti e una di duecento anni si trovano sullo stesso piano.
Per questo ho fatto una serie di quadri con oggetti che volteggiano nello spazio nero del cosmo con riferimenti pompeiani che si incrociano a riferimenti moderni. Non mi preoccupo, dunque, che i miei lavori siano istantanei, in quanto sono anche parte del tempo oggettivo oltre che di quello soggettivo; quello che conta è il messaggio. Così ho iniziato a dipingere sulla neve, a New York, nel gelido inverno del 1979.
Del mercato non mi importava più nulla. Devi fare una scelta: o ti comporti in un certo modo, ti dai una certa importanza, oppure fai le cose che ti fanno più piacere perché sono quelle per te più naturali. Sto scrivendo un libro dal titolo La scuola della disobbedienza, che rappresenterà un po’ il percorso del mio lavoro, le storie che ci sono dietro e la filosofia che lo sostiene.
Nella tua celebre serie Urban Mythology trasmetti l’immaginario della cultura classica, del mito, nella galassia della modernità e del pragmatismo che abitano il carattere di New York; la metropoli viene trasfigurata in una selva labirintica sospesa, dove tutto può prendere forma, anche l’illusione.
Nel soffermarsi sulle diverse figure che hai messo in scena: il cavallo di Troia che sfida la potenza militare, l’Icaro che sfreccia con una vela nel traffico, il Minotauro infuocato, si nota un rapporto bidimensionale con la città e le sue declinazioni, da una parte di discendenza dall’altra di contrasto.
Più che sul piano della cultura classica io metterei la mitologia su quello della necessità di ogni tempo. È come riproporre una scusa per poter volare. All’epoca la mitologia non era altro che un insieme di desideri che diventavano realtà per necessità di qualcosa. Ma riuscivano a essere tali solo in una dimensione diversa da quella del sensibile. Allo stesso modo questi miei lavori, per certi versi così lontani dalla concretezza di New York, hanno preso vita quando mi si è chiarito il concetto di realtà parallela in arte. Se tu riesci a slegarti dal mondo reale hai molte più possibilità di pensiero e realizzazione: puoi essere anche capace di volare, di morire e tornare in vita. La realtà parallela è una delle strade per arrivare a essere libero di pensiero; e se sei libero di pensiero sei anche libero di creare. Per questo a me interessa poco se vendo o non vendo, io sono libero. Quindi tutto nasce da una necessità e uno slittamento di pensiero, senza altre sofisticazioni. Quando la gente vedeva un pattinatore sfrecciare con le ali in mezzo alle auto, qualcuno rimaneva meravigliato mentre qualcun’altro dava la sua approvazione. Era talmente irreale come immagine che in quel momento avrei potuto fare qualsiasi tipo di azione; era qualcosa di svincolato dalla realtà che andava oltre qualsiasi tipo di legame con la città. Anche se qualche volta i tassinari si incazzavano per davvero.
Appare immediata nel tuo lavoro, dagli Anni Settanta in poi, una speciale predilezione per elementi e materiali dal forte portato simbolico-primordiale, quali fuoco e metallo. In fin dei conti tu stesso ti riservi un ruolo nella mitologia che metti in scena, e lo fai nelle vesti di Efesto, il dio greco del fuoco e della metallurgia.
Certamente. Senza fuoco non ci sarebbe vita. Il sole è fuoco. Sebbene sia un po’ difficile da maneggiare: lo devi conoscere per poi diventarne amico. Ma se tu lo prendi di petto lui si incazza. Il metallo – nello specifico allumino di riciclo da plance di stampa – è simbolo e parodia della modernità.
Ho sempre in testa di fare delle foto in relazione a un vulcano. Una volta provai qualcosa con la bicicletta sul Vesuvio, ma non c’era la giusta situazione. Al contrario, sono riuscito a farne una bellissima con la scala di fuoco a Pantelleria, dove ci sono sedici vulcani. Mi ricordo che c’erano le nuvole che scavalcavano la montagna grande, come una cascata d’acqua. Allora ho incendiato la scala fissata a un carretto e ci sono andato incontro.
Ho letto che tornando a New York, alla fine degli Anni Settanta, sei rimasto attratto dai graffiti (writing) che costellavano il panorama della città. Penso che allora l’impatto che potevano avere sull’immaginario artistico fosse molto diverso da quello attuale. L’interesse verso i graffiti era comune in molti degli artisti che elessero lo scenario urbano quale proprio spazio di riferimento; del resto, proprio dai graffiti era mutuata una delle innovazioni più importanti della loro arte: la visibilità. A quel tempo dovevano esserci categorizzazioni meno stringenti tra coloro che operavano senza autorizzazione nella sfera pubblica. Allan Schwartzman, nel suo libro Street Art del 1985, riunisce nel concetto del titolo sia writers che “traditionally trained artists” attivi nell’ambiente urbano. La “scoperta” di nuovi spazi d’intervento riusciva ad avere una forza aggregativa ancora importante nonostante fosse già da subito evidente il netto scarto in termini di estrazione, volontà e finalità tra i due ambiti.
I graffiti mi interessavano come forma rivoluzionaria di espressione, attraverso la quale gruppi di giovani riuscivano a venir fuori dai quartieri nei quali erano relegati, lasciando traccia della propria presenza per tutta la città. Mi interessava meno il fatto che fosse, paradossalmente, quasi un movimento di élite, chiuso all’interno della sua scrittura illeggibile. La Street Art ha indubbiamente un debito nei confronti del writing per quanto riguarda l’apertura di nuovi spazi fisici di espressione, ma, differentemente da quest’ultimo, la sua operazione è quella di mettere l’arte in pubblico, sottraendola alle gallerie schiave del mercato. La Street Art vien fuori anche in conseguenza di manipolazioni tremende messe in atto dalle gallerie.
Ad esempio?
La Transavanguardia è una di queste: nata dall’accordo a tavolino tra alcune delle gallerie più in vista del panorama internazionale. Allora molti artisti, invece di seguire la moda, hanno raccolto l’input dei graffiti iniziando a mettere la loro arte sui muri, ma per la gente. Per la prima volta tutti potevano lasciare il proprio messaggio d’arte nei posti più visibili e strategici della città, e così si formavano le relazioni e avveniva il dialogo anche tra gli artisti stessi.
Comunque il complimento più bello che ho ricevuto nei miei ventiquattro anni a New York lo devo a quello che molto probabilmente era un writer. Ero fermo a un semaforo dopo Brooklyn Bridge con la mia macchina “vestita” da cavallo di Troia, quando mi si avvicina un ragazzino portoricano di undici, dodici anni al massimo urlandomi: “This is art!”. Sono dovuto ripartire appena scattato il verde ma mi ricorderò sempre la sicurezza e categoricità della sua affermazione. Lui aveva capito il meccanismo parallelo di cui ho riferito prima.
Sei stato testimone privilegiato di alcuni degli episodi memorabili di quegli anni – come quando nel 1984 riuscisti a fotografare Keith Haring al lavoro sul Bowery Wall – ma anche protagonista di esperienze significative come quelle del Pier 34 sull’Hudson River e della Rivington School.
Nello spazio del Pier si stagliava, sospesa, la mia scultura di Icaro a grandezza naturale. Mi ricordo che mi arrampicai a dei cavi elettrici belli grossi posti vicino ai pilastri laterali della struttura, sino a raggiungere le capriate che reggevano il tetto. Vi camminai sopra e trovai il punto migliore per appendere l’opera.
Al Pier entravamo di nascosto. Fuori c’era un cartello con scritto “no trespassing” che io mutai in “keep trespassing”. La polizia faceva spesso irruzione e sequestrava sculture, finché è arrivato il bulldozer a buttare giù tutto. Su Stern, una rivista tedesca, apparse un fantastico servizio fotografico di Andreas Sterzing che rimane la più importante documentazione di quell’esperienza. Una mostra l’anno scorso ha tentato di ricostituirla: c’era anche il mio quadro keep trespassing.
La Rivington School era un gruppo di artisti che operava all’interno di una scuola abbandonata dell’East Village. Qui comparve una grande installazione scultorea di ferri saldati, un work in progress, opera collettiva di Linus Coraggio e altri artisti. Poi anche qui è venuto il bulldozer e ha buttato giù tutto.
Ci portavo il mio amico Enrico Baj, che su questo luogo scrisse un paio di articoli poi confluiti nel suo libro Ecologia dell’arte.
Forse mi sbaglio, ma credo che nessuno abbia mai sottolineato il tuo ruolo chiave nel tentativo di dare un primissimo inquadramento storico-critico del campo della Street Art all’interno del dibattito nazionale. Nei tuoi testi per i cataloghi Keith Haring. Le lavagne metropolitane e la street art 1980-86 (Galleria Giulia, 1996) ‒ primo libro edito in Italia il cui titolo fa riferimento alla sfera in questione – e Pittura Dura. Dal graffitismo alla street art (Electa, 1999) è presente una rivendicazione del significato proprio e non letterale di “Street Art”, in contrapposizione a terminologie improprie e uniformanti come “graffitismo”, che in quegli anni andavano per la maggiore in Italia. Oggi a mio parere si sente la necessità di chiarire ulteriormente questa posizione, considerato come l’acquisito processo di brandizzazione del termine ne abbia svilito e confuso i contenuti.
Chiamavano Keith Haring un “graffitaro” ma non c’entrava un bel niente con i graffiti. Per quanto riguarda la situazione attuale, la cosa tremenda è che questi che hanno la sfacciataggine di chiamarla “Street Art” non si sono mai preoccupati di indagarne le origini e soffermarsi sulle motivazioni per cui è nata. Quella era arte che aveva un messaggio; oggi fanno decorazioni, non arte. Mi arrabbio molto quando vedo che certe cose fatte con artigianato vengono chiamate Street Art; meglio che le chiamino urban art, perché non si saccheggia un movimento che onestamente ha cercato di rivoluzionare il modo di vedere le cose, con bravura e talento.
A tal proposito mi piace sempre ricordare ciò che affermava, in uno dei suoi manifesti stradali, Jenny Holzer: “Questa è arte fatta in segreto per la gente. È arte che si suppone non debba esistere. È arte su soggetti seri messa dove tutti possano vederla. È un’arte estremamente bella per mostrare quanto buone potrebbero essere le cose”. Questa è la sola Street Art.
– Egidio Emiliano Bianco
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati