Gli ultras, l’arte e la musica. Cristiano Carotti e Rodrigo D’Erasmo a Venezia
Ultimi giorni per visitare “Dove sono gli Ultras”, la prima mostra personale veneziana di Cristiano Carotti, allestita negli spazi di One Contemporary Art. Un'analisi sulla figura del simbolo e la celebrazione della sua forza comunicativa e totemica. Il percorso espositivo è appositamente sonorizzato da Rodrigo D’Erasmo, affermato violinista e attuale membro degli Afterhours. Abbiamo fatto qualche domanda a lui e a Cristiano, l'artista e ideatore della mostra.
Cominciamo dal titolo che si pone come una domanda e allo stesso tempo una non domanda, senza punto interrogativo: Dove sono gli Ultras. A chi è rivolto? Chi vuole interpellare? Su chi punta il dito?
Cristiano Carotti: Il titolo Dove sono gli Ultras trae origine da un popolare coro da stadio solitamente utilizzato dalle tifoserie per provocare gli avversari. Senza il punto interrogativo, però, sta a indicare una sorta di non luogo. Quel non luogo nella nostra psiche in cui, secondo C.G. Jung, l’inconscio collettivo incontra il nostro “Io cosciente” riuscendo a influenzare i pensieri e le azioni di quest’ultimo. Di certo questo progetto non punta il dito in maniera critica sul fenomeno sociale in sé ma si presenta più come una presa di coscienza e un “esperimento artistico” volto a ricreare, attraverso l’arte visiva e la musica, le condizioni emotive che spingono ognuno di noi a subire l’influsso dell’archetipo e a trasformarsi in ultras. Detto ciò, è chiaro che tale presa di coscienza ci aiuta a essere più critici e a diffidare per esempio dei fenomeni populisti e nazionalisti che hanno preso piede con grande forza nella recente storia italiana ma anche internazionale. Basti pensare che il primo fenomeno che Jung porta come esempio, a supporto delle teorie sui fenomeni collettivi di questo tipo, è relativo all’ascesa del Nazismo in Germania.
Chi sono dunque questi ultras?
C. C.: I simboli, i riti collettivi e certi richiami alla mitologia dialogano fortemente con il nostro sé più atavico e tutti noi, nessuno escluso, siamo soggetti a questa influenza. Perciò si può parafrasare Jung sostenendo che sotto l’influsso dell’archetipo diventiamo tutti ultras.
Ragionando sulla definizione di feticcio: [fe-tìc-cio] s.m. (pl. -ci): 1 Oggetto adorato come una divinità presso i popoli primitivi SIN idolo. 2 fig. Persona o cosa oggetto di ammirazione esagerata, addirittura fanatica. Quali sono secondo voi i “feticci contemporanei”? Finita l’epoca dei grandi Credo politici e sociali del ’68, quali sono i credo contemporanei?
C. C.: Di certo la nostra epoca è caratterizzata dall’avvenuta e conclamata Morte di Dio, soprattutto per quanto riguarda la società occidentale. Questo ha generato un vuoto incolmabile perché l’uomo contemporaneo resta senza strumenti per affrontare gli interrogativi primari, primo tra tutti quello sulla morte. Il denaro rappresenta l’unico punto fermo di una società che tende a svendere al mercato anche le arti, creando sempre più ibridi feticci asserviti al costume più che alla concezione tradizionale (di matrice esoterica) dell’arte stessa. Di certo il mondo ultras contiene numerosi esempi di idoli e di feticci, che sono quelli che il nostro progetto va a isolare ma, se osserviamo bene, possiamo riscontrare una serie di parallelismi allargando la ricerca alla politica e alla società in generale. Un altro esempio di feticci contemporanei sono i nostri stessi profili social. Questi generano avatar a volte distanti dall’essenza delle personalità a cui appartengono: sembrano generati da un ribaltamento speculare (verso il basso) del mondo delle idee di matrice platonica. Ultimo stadio della degenerazione è il tentativo di plasmarci verso l’avatar “idolo” da noi stesso costruito arrivando a generare una sorta di crisi d’identità generalizzata.
Ovviamente il feticcio non è da condannare né da demonizzare, svolgendo una sua funzione psicologica specifica. Bisogna però imparare a riconoscerlo e a comportarci di conseguenza.
Rodrigo D’Erasmo: Credo che il tema scelto da Cristiano per la mostra sia quanto mai attuale e prenda in analisi uno dei feticci simbolo della nostra era: il tifo. Viviamo in un’era di tifosi. E non solo di calcio o di sport in genere. L’approccio che abbiamo rispetto a molte altre questioni del nostro quotidiano è spesso simile a quello di un tifoso sportivo. E parlo della politica, della religione, persino dell’arte. Molti degli estremismi che affliggono i nostri tempi sono accostabili ai deliri da curva.
Stendardi con la morte e arazzi con l’amore, tigri e orsi, animali selvaggi e graffianti accompagnati da un sottofondo musicale assordante: Thanatos ed Eros: due facce della stessa medaglia?
C. C.: Quello che si è voluto realizzare in questo allestimento negli spazi di One Contemporary Art, così come nella mostra alla White Noise Gallery, è un percorso. Insieme ai curatori Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti abbiamo cercato di creare delle stazioni, come una sorta di via crucis pagana, invocando in ognuna delle tappe le immagini archetipiche più comuni e i riferimenti mitologici presenti nel linguaggio estetico ultras. Il site specific sound di Rodrigo guida una vera e propria danza del nostro “Io” all’interno di questo percorso, incarnando gli stati emotivi contrastanti che le immagini evocano e immergendo lo spettatore in una atmosfera di totale solennità. Amore e Morte, Bene e Male e tutti gli opposti in generale sono parte di un tutto che è la nostra anima, principale protagonista di questo progetto.
R. D. E.: Piuttosto una coppia di amanti inseparabile. Il mito li vuole fratelli ma io ho sempre pensato a queste due entità come a una sola, complessa e affascinante cosa. Questo binomio e i suoi contrasti, conflitti e sovrapposizioni mi hanno sempre affascinato e ispirato e così è stato anche con le opere di Cristiano. La mia musica vive di opposti, si muove sempre tra il maggiore e il minore, tra il silenzio e il rumore e non poteva sposarsi meglio con l’immaginario di Cristiano, soprattutto per questo progetto.
Aggressività come collante di identità, come forza collettiva: c’è ancora spazio ai giorni nostri per un IO equilibrato o siamo tutti vittime di un mondo catalizzato da poli dialettici dove per imporsi è necessario urlare? C’è ancora spazio per una “rivoluzione” pacifica o sentimenti più miti?
C. C.: La vera rivoluzione, in questo particolare momento storico, è restare umani. Questa passa attraverso la messa in secondo piano dell’individualismo malato che caratterizza la nostra epoca. Riscoprire la collettività, essere pronti ad accogliere l’altro, cosa che questa società di urlatori e giudici telematici ha perso l’abitudine di fare. È necessario uscire dalla propria prospettiva, contemplare diversi punti di vista e dare il giusto valore al denaro.
R. D. E.: Sinceramente non saprei. Riscontro certamente un’aggressività diffusa e poca predisposizione a un ascolto silenzioso, rispettoso, attento e profondo di opinioni, concetti, sentimenti, musica. Credo però ci sia un desiderio altrettanto diffuso di invertire, per lo meno in parte, questa tendenza. Si tratta spesso di trovare la giusta formula per sollecitare un cambiamento, soprattutto in ambito artistico. Incuriosire a tal punto il fruitore da rompere la sua barriera del suono e del rumore interno e riportarlo al silenzio. In questo senso, ad esempio, credo che le installazioni artistiche con l’utilizzo della musica siano molto interessanti perché, coinvolgendo più sensi, obbligano al silenzio e all’introspezione. Ecco, quest’ultima mi manca, e manca tanto. È il ritorno che più di tutti forse mi auspico, e in senso massivo, non elitario.
Oltrepassato il celerino-tempesta appare un angolo di quiete con idoli intimi e fedi personali. Feticci, appunto. Come nelle favole di Propp: dopo il Male finalmente trionfa il Bene in un lieto fine o questo altarino personale è un ripiegamento su se stessi?
C. C.: Dea è sicuramente un’immagine positiva ma in questo progetto il Bene e Male tendono a essere in un certo senso sospesi. Perciò l’idea di lieto fine va assolutamente abbandonata. L’altare alla Dea, adornato da doni sacrificali e resti di una battaglia contemporanea, è il polo di una triangolazione che vede la scultura Hai Paura del Buio? e la curva Amore, come altri vertici. Questo triangolo immaginario sembra delimitare i confini del non luogo Dove sono gli Ultras. Lo spettatore si trova quindi a calpestare una terra di nessuno delimitata dal concetto di “Fanatismo come vero Amore” da una parte, rappresentato dalla parete-curva allestita con gli striscioni e le bandiere, dagli archetipi della guerra e dell’ombra, incarnati dall’opera Hai paura del buio? dall’altra e per finire dall’idea di pura idolatria contenuta nell’altarino alla “Dea”. Il celerino è iconograficamente prestato al ruolo specifico che ha in questo allestimento. L’opera nasce nel 2013 appositamente per il festival Hai Paura del Buio? diretto da Manuel Agnelli e trae ispirazione dal “buio” della scuola Diaz, in riferimento ai fatti avvenuti a Genova nella notte del 21 luglio 2001. È un’opera importante per me e sono doppiamente felice di averla esposta all’interno di Dove sono gli Ultras perché ha un valore simbolico anche nella collaborazione tra Rodrigo e me.
C’è un legame tra i cori degli ultras e la musica sacra?
R. D. E.: Come già detto in precedenza parlando di feticci, indubbiamente tra religione e sport, calcio in testa, ci sono similitudini. Tra queste potremmo contare anche l’aspetto corale, in effetti. L’unisono dei cori da stadio ricorda molto le litanie e i canti delle funzioni ecclesiastiche a ben vedere. Sarebbe interessante registrare dei cori da stadio armonizzati, ad esempio simulando una sorta di canto gregoriano. Interessante spunto per una futura installazione.
Da un impeto iniziale e da passioni travolgenti a un “confessionale” intimo finale: la musica in tutto questo diviene catarsi?
R. D. E.: Diciamo che si muove su due piani distinti. Uno iniziale, tensivo, che provoca il pubblico, mette a disagio, preoccupa, invita e introduce. Un secondo, distensivo, che però al suo interno ha ulteriori tre fasi di svolgimento: un Incipit distensivo, a risolvere la tensione della musica che accompagna la prima fase della mostra. Una parte centrale aggressiva e dolorosa, volta a sottolineare i sentimenti contrastanti provocati dal primo impatto con le opere. E infine un’ultima parte orchestrale dolente ma venata di una certa speranza e di un ritrovato calore.
La musica accompagna tutta l’installazione fin dal suo inizio al piano inferiore. Salendo le scale segue il visitatore in crescendo fino a divenire un tutt’uno con le opere e con le sensazioni a esse legate. È un sottofondo discreto ma protagonista allo stesso tempo. Come un fiume che irrompe e guida i sentimenti. È una musica assordante pensata come un’esperienza totalizzante. Musicalmente possiamo citare alcuni riti primitivi in cui la musica diveniva momento di ecstasy o la forma dei rave degli Anni ’80?
R. D. E.: Credo il parallelo nel caso di questa installazione musicale sia molto più calzante proprio con certa musica sacra bachiana resa inquieta dalla presenza di un violino distorto a minarne la risoluzione, a mescolarne i piani e i mondi d’origine.
Come è nata la collaborazione tra voi?
R. D. E.: È nata da un comune amico e collaboratore, Filippo Timi. Ci conoscemmo grazie a Filippo una sera a cena dopo un suo spettacolo per il quale Cristiano aveva disegnato delle splendide tavole allegoriche che mi avevano molto colpito. Mi mostrò poi un suo catalogo che mi piacque moltissimo. Parlando trovammo quindi molti punti di contatto e decidemmo di lì a breve di metterci alla prova collaborando su un progetto comune. Nacque così la prima collaborazione per il Go Dai fest, messo in scena all’Angelo Mai di Roma nel 2013 e in seguito per il festival Hai Paura del Buio? nelle sue tappe di Torino (preso le OGR), di Milano (Alcatraz), di Roma (Auditorium Parco della Musica) e L’Aquila.
‒ Eleonora Milner
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