Dell’opera e di altre cose del mondo
Quali obiettivi deve porsi l’opera d’arte e che rapporto ha con l’artista? Custode di universalità ed eternità, l’opera sembra avere poco a che spartire con il raggiungimento della fama individuale.
Chi ha detto che l’opera debba raccontare qualcosa? L’opera racconta se stessa e non può fare nient’altro che questo. Non perché non voglia ma perché non può, non ne avrebbe la forza. Non avrebbe mai la forza della realtà delle cose.
Tutti coloro che credono di produrre opere che raccontino qualcosa non sono artisti ma semplici osservatori della realtà. E la realtà, nonché la storia come sua declinazione, per sua natura intrinseca, racconta se stessa, tramandata dagli uomini che ne veicolano gli accadimenti. L’opera non ha racconto, è solo se stessa, avendo origine dalla momentanea assenza di senso. Mi imbatto di continuo in artisti che bramano il racconto delle loro opere, senza chiedersi se l’opera stessa vorrebbe essere raccontata. Sono così presuntuosi da non chiederle il permesso, tanto ingenui da ignorare la perdita di ogni autorità su di essa. Non v’è alcuna necessità di raccontare l’opera, se essa stessa vale come tale. Sarà nello sguardo degli altri che prenderà forma e conforto. Una contemplazione che non esaurisce la lettura, certo, ma un conforto che l’artista non sarà mai in grado di dare con l’ausilio della sua parola, perché questa rischierebbe di apparire come un alibi per un’opera manchevole. Si tratta di un conforto scomodo sul quale è necessario interrogarsi. L’opera che non bara ci costringe a un sintomo di scomodità. L’opera unica, mai progettata, tantomeno pensata perché il pensiero non include il fare artistico, o meglio, non include l’atto creativo.
TENTATIVI E FALLIMENTI
Che sia chiaro a voi, piccoli pseudo-artisti che usate l’opera come mezzo e non come fine per il raggiungimento della vostra fama individuale, per il successo personale data la scarsità delle vostre idee; sappiate che l’opera ha in sé quello che nessuno di noi potrà mai possedere: l’eternità, l’universalità.
Io non posso fare altro che guardare e che il mio sguardo mi salvi da questo peso. Perché è nello sguardo dell’artista la visione di un mondo che anticipa il mondo e che ribalta la prospettiva, affinché tutto questo possa donarci una riflessione inconsueta d’immaginazione immaginata. Mentre ci troviamo coinvolti e avvolti dall’eccellenza esistenziale, privati della facoltà del dubbio, solo l’errore e la concessione di sbagliare può determinare il nostro stare in vita. Fallire magnificamente, affinché il tentativo sia lo stadio che detiene la prova dell’opera e assumersi il rischio e la responsabilità che non vi sia alcuna ricompensa.
Rimanere morti nel mondo dei morti. Morti nel mondo dei vivi.
Lo dico a voi, spavaldi modaioli, le cui opere “funzionano” come un elettrodomestico. L’arte vive e si alimenta nell’inciampo, nell’attimo in cui il sentire annulla il pensare e ogni opera non è altro che il risultato di una serie di tentativi incerti e prossimità di fallimenti. L’opera esiste davanti ai nostri occhi e nulla ci chiede, soltanto di essere aggiunta in bilico tra le cose esistenti del mondo. Per pretendere questa volontà, l’opera deve creare nello sguardo degli altri nuove improvvise visioni e ribaltamenti di prospettiva. Non esistono attese, parole confortevoli o scritti dal tenore intellettuale; esiste un’orgia, un rapporto a tre, in cui l’opera sublima il suo volere e tradisce le aspettative di colui che la crea. L’artista non può nulla, non ha più alcun potere e, soprattutto, nessun diritto di proprietà. L’opera si manifesta nella sua interezza, solo dopo lo sguardo di chiunque la visiti.
VEDERE OLTRE LE COSE
Così, l’artista porta il peso di questo sentire del mondo come un’antenna che riceve segnali continui e persistenti, di questo vedere oltre le cose stesse. Un potere che porta alla disfatta e non alla fama e alla notorietà. Non siamo niente e siamo tutto. E in un giorno qualunque, in un momento in assenza di pensiero, sopraggiunge la visione improvvisa e folgorante oppure lenta e dolorosa, affinché l’artista con la sua opera e il suo cercare aggiunga qualcosa alle cose già esistenti del mondo, per poi perderla nel momento stesso in cui la definisce finita (perché un’opera non è mai finita: che si sappia), per donarla allo sguardo di un pezzo di mondo e abdicarne il possesso. Tutto inizia sempre nel più piccolo dei modi.
‒ Serena Fineschi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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