Le artiste falciate dalla morte. Una lettura antropologica
Diane Arbus, Ana Mendieta, Francesca Woodman, Pippa Bacca e Chiara Fumai. Sono queste le figure di donne e artiste prese in esame da Fabio Petrelli. Lungo un’indagine che segue la linea della tragicità e di una malinconia saturnina.
“Piangete, madri, che avete figli
piangete col dolore forte che vi venga dalle foglie del cuore,
perché vi lascino prima del tempo.
Viene Tanato che non rispetta
con la sua falce affilata
e presto ci annota nella sua lista”.
Come per una figlia, Lamentazione funebre pugliese; tratta da B. Montinaro, Canti di pianto e di amore dall’antico Salento, Roma 1994
Vi è un aspetto luttuoso ed estremamente melanconico nella produzione artistica che, a partire da Diane Arbus, si intreccia senza tregua nelle biografie complesse di Ana Mendieta, Francesca Woodman e Pippa Bacca, per poi riverberarsi nel linguaggio personale, artistico e performativo di Chiara Fumai.
Le loro rispettive opere, se pur con stilemi estremamente diversificati, appaiono come alter ego biografici in cui è possibile rintracciare l’esperienza mobile e impalpabile di sensibilità interiori che si sono coagulate all’interno di un viaggio esistenziale nella solitudine dell’uomo contemporaneo, negli atri più isolati e solitari, dal suicido all’assassinio, nella quale la morte, razionalizzata col senno di poi, è intesa come il viaggio antropologico più complesso e arduo che l’uomo deve affrontare.
Difatti, in tutti questi episodi, l’isolamento creativo resta il fil rouge che accomuna questi ritratti di donne che, pur nella loro complessità, hanno dimostrato di lasciare pagine alte e articolate nell’universo dell’arte contemporanea. Allora, il compito degli storici dell’arte si fa ancora più pungente: il dover rintracciare icone, forme e motivi attraverso una lente di ingrandimento che restituisce un significato non solo didascalico e formalistico dell’opera, ma che riconsegna, attraverso la potenza pedagogica, sociale e demoetnoantropologica dell’arte, un significato più intimo e nascosto. Tutto questo deve, nondimeno, confrontarsi anche e soprattutto con pagine di vite oramai oscurate, sbiadite, nelle quali l’intero lavoro dell’artista è stato parte di un progetto autobiografico articolato e ampio, testimonianza inderogabile per comprendere a pieno in chiave psicologica e psicoanalitica tratti e substrati della personalità, di cui la produzione artistica è vista come la capacità di rapportarsi al mondo sensibile esteriore, talvolta percepito come sconosciuto.
IL MONDO PROVVISORIO DI DIANE ARBUS
Il submondo colto da Diane Arbus (New York, 1923 – Greenwich Village, 1971) trae origine dalle istantanee di Louis Faurer, ma anche e soprattutto si modella nella conoscenza dell’arte e della letteratura europea che si traduce negli echi lontani della pittura di Angelo Morbelli, pittore attento e sensibile alle realtà sociali nei cui dipinti si denunciano la povertà e l’emarginazione nelle grandi aree urbane di fine Ottocento. Ma Diane Arbus, con l’uso sapiente della fotografia, è, insieme a Andy Warhol, la capostipite che aprirà la strada verso un’unione tra fotografi e artisti consolidando anche e soprattutto una visione concettualistica nell’uso dell’apparecchio fotografico per la propria ricerca. Emerge nella Arbus un mondo provvisorio, una attrazione antropologica per i fenomeni da baraccone: i freak show, spettacoli in voga negli Stati Uniti in cui si esibivano persone o animali deformi, con malattie rare o il più delle volte con capacità estreme. Sono le fiere delle grigie periferie: la Arbus vaga con la macchina fotografica indagando questa realtà, osservando e scrutando come un antropologo contemporaneo, la quotidianità latente e fragile di vite al margine. I soggetti sono fatti posare al centro, immobili, vitrei, soli e abbandonati davanti all’obiettivo fotografico. Questa “centralità visiva” che coglie i personaggi della quotidianità deviata in una fissità innaturale, trae origine da una osservazione intellettualistica della realtà; una composizione che si sviluppa attraverso un risonanza lontana di ideali platonici che in Masaccio, in Piero della Francesca, in Beato Angelico e in Paolo Uccello vedono il rigore naturale, matematico e fiabesco dello “spazio teorico ed empirico” come definito da Giulio Carlo Argan. Ma il nucleo dell’impianto prospettico nelle fotografie della Arbus deve essere inteso come “centralità malata”, che pone lo spettatore di fronte allo straniero, al nascosto, al proibito non commiserevole. Questa “consapevolezza infelice” che emerge nella ricerca di Arbus, definita così da Susan Sontag, non contiene ironia ma ha una parvenza pessimistica e melanconica, riflesso delle frequenti crisi depressive di cui soffre da tempo la sua anima. La fragilità che emerge dalle istantanee si riflette in una precarietà intima che culmina il 26 luglio del 1971, quando, durante uno stato depressivo, si toglie la vita ingerendo una dose massiccia di sedativi e tagliandosi le vene. Resta così, Diane Arbus, una figura rivoluzionaria nel panorama dell’arte contemporanea; la sua fotografia è deserticamente melanconica e luttuosa, una “radiografia antropologica” che innalza poeticamente attraverso il processo creativo e intellettualistico dell’artista, vite randagie e borderline.
LA DONNA SECONDO PIPPA BACCA
L’interesse per il nomadismo, di cui il viaggio amplia gli aspetti del pellegrinaggio in geografie lontane, è stato alla base della performance di Pippa Bacca (Milano, 1974 ‒ Gezbe, 2008) che in Spose in viaggio, nel 2008, proponeva di attraversare in autostop alcuni Paesi in conflitto vestita da sposa insieme alla compagna di viaggio Silvia Moro. In questo vagare solitario e immacolato, iniziato a Milano nel giorno simbolico della Festa della Donna, la cui meta prefissata era Gerusalemme, fu interrotto in Turchia con lo stupro e l’assassinio di Bacca da un uomo che le aveva dato un passaggio. L’esito drammatico di questo pellegrinare, di cui oggi rimangono indelebili le fotografie come testimonianza inalterabile, deve scuotere il pensiero contemporaneo sulla marginalità in cui si riverbera la donna nella società attuale. Il bianco candido dell’abito da sposa, evocato in questa performance, ha alluso all’incontro metaforico con l’universo femminile di Paesi forestieri; colore alchemico che in chiave iconologica, da un lato, rappresenta l’innocenza, ma nell’altro aspetto evoca l’assoluta finitezza. Questo viaggio senza ritorno in patria contiene in sé un’amara riflessione sulla brutalità che ci circonda; il niveo vestiario si vela di nero lutto, colore della Mater dolorosa deambulata nelle processioni del sud, effige funerea lontana dal riflesso della sposa candida, ma che diviene evocazione della morte perpetua.
MENDIETA, WOODMAN E FUMAI
L’esperienza della fine comporta anche lo spargimento catartico del sangue che dall’iconografia di Frida Kahlo si riverbera nell’uso del corpo come azione in Ana Mendieta (L’Avana, 1945 ‒ New York, 1985). Nella performance Death of chicken, l’artista, che soffriva da tempo di depressione neurotica, si mostrò nuda mentre reggeva un pollo agonizzante da cui sgorgava sangue vivo, sottolineando il difficile viaggio archetipico della donna, dell’artista e della madre senza patria che la portò a suicidarsi nel 1985 lanciandosi dal 35esimo piano dell’appartamento dove viveva.
La difficile lettura antropologica come strumento di riflessione sul sé e sull’identità femminile appartiene alla produzione di Francesca Woodman (Denver, 1958 – New York, 1981) e Chiara (Roma, 1978 – Bari, 2017) di cui permangono immagini fotografiche e documenti performativi. Le istantanee della Woodman, morta suicida a ventitré anni, sono visioni ossessive del proprio corpo che appare in contrasto con l’inesorabilità del tempo, date le lunghe esposizioni in cui il soggetto appare sospeso, scarnificato e traballante, ancorato in un dove sconosciuto, ma in ogni caso lontano. L’irremovibilità del lutto, espressa nelle istantanee di Franco Pinna e Cecilia Mangini sulle indagini antropologiche del sud e sulle realtà subalterne della donna, si proietta oggi nelle performance di Chiara Fumai, suicidatasi a Bari lo scorso 16 agosto. Le sue azioni, in cui ha riletto testi sul femminismo, si mostrano in bilico tra realtà e immaginazione, fatte di biografie che furono, di perseguitate e flagellatori, fantasmi arcani e fiabeschi in cui l’arte diventa provocazione, finzione, allusione. Per quanto ovvio possa sembrare ribadirlo, tutte queste personalità hanno in comune una profonda percezione inquieta della realtà e dell’arte, una visione quasi romantica nella quale lo stimmung malinconico ha prevalso sulla vita stessa. Un’evoluzione della lezione di Panofsky, di Calvesi e di Wittkower, dove la creatività è legata agli aspetti saturnini e melanconici, in cui il decesso è inteso come tragitto, come trasformazione alchemica verso la luce, colore candido di contrasto alla morte.
– Fabio Petrelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati