Artisti da copertina. Parola a Caterina Morigi
Torna puntuale la lunga intervista all’artista che ha realizzato la copertina dell’ultimo numero di Artribune Magazine. Lei è Caterina Morigi e risponde alle domande del nostro talent scout Daniele Perra.
Da piccola era affascinata dall’archeologia greca e romana. E sembra che Caterina Morigi, classe 1991, quella passione non l’abbia mai abbandonata. Che siano fotografie, piccoli quaderni o sculture, al centro della sua ricerca c’è un forte interesse per le tracce che ritroviamo in quasi tutti i suoi lavori. Segni del passato che persistono nel presente, opere che si trasformano nel tempo, come i monocromi realizzati con succhi di frutta, i libri su cui fa colare il colore o le pietre/sculture. Perché, ci dice: “Non provo a limitare il mutare della materia, non lo ostacolo e non lo accelero, lo metto in evidenza”.
Che musica ascolti?
Di tutto.
I luoghi che ti affascinano.
Mi attraggono i luoghi dopo le tempeste, ambienti naturali colpiti da uno sconvolgimento: una pineta incendiata, una mareggiata che si abbatte sulla spiaggia, la frana sul versante di una montagna. Osservo quegli eventi straordinari che alterano l’equilibrio per poi vedere come la natura ferita gestisce il tempo fisiologico necessario a ristabilire l’ordine – forse un nuovo ordine – dopo un evento traumatico.
Le pellicole più amate.
Guardo molti film recenti, appena usciti, ma Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni rimane la pellicola più significativa, anche per le mie origini ravennati.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Gli artisti che ho incontrato: Adrian Paci, Alberto Garutti, Guido Guidi, Maria Morganti, Paolo Icaro, e molti altri con cui ho condiviso un dialogo.
Partirei da un aspetto che ho ritrovato, in forme diverse, in quasi tutti i tuoi lavori: il concetto di traccia.
Le tracce del tempo sono ovunque, niente ne è immune. Sulle cose, nelle persone, su tutte le superfici vengono registrati segni che restano a mappare il trascorso. Le tracce possono essere sedimentazioni di residui o, al contrario, si possono verificare “in assenza”, come graffi, vuoti, mancanze. A volte sono visibili solo da pochi, trasparenti alla quasi totalità del mondo, perché si trovano negli occhi o nella mente. Queste tracce sono evanescenti e momentanee, si trasformano costantemente. Altre volte possono essere indelebili e cadere in profondità.
Da piccola avevi una grande passione per l’archeologia greca e romana. Pensi abbia influenzato la tua ricerca?
Sì, continuo ad attingere dal passato, dai modelli e dai generi antichi. Mi affascinano i metodi che usano storici e archeologi per colmare la mancanza di informazioni e ricostruire il passato: le indagini storiche non sono quasi mai lineari. Trasporto questa suggestione nella mia ricerca, che però ha un obiettivo molto più poetico che scientifico, e si rivolge al presente.
La poesia è un’altra fonte importante per il tuo lavoro.
La poesia è un modo di comunicare molto potente e delicato al tempo stesso. È capace di creare relazioni attraverso il linguaggio. La trovo affine al modo in cui cerco di esprimermi, sebbene la poesia lo faccia con le parole. Silvia Bre, Wislawa Szymborska, Nina Cassian, Stefania Dal Bon sono le mie letture.
Molte tue opere si trasformano nel tempo.
Non provo a limitare il mutare della materia, non lo ostacolo e non lo accelero, lo metto in evidenza. Si è sempre sottoposti al tempo, non m’infastidisce il cambiamento incontrollato. Portare l’attenzione su quest’aspetto può rivelare risultati inaspettati, come apparente fragilità o elevata vulnerabilità. Così i miei lavori sono sempre dipendenti dai mutamenti olfattivi, visivi e tattili della sostanza che li compone.
Fotografie, sculture, disegni, pittura: da cosa sono accomunati?
Dalla volontà di osservare minime variazioni e dimostrare che non sono soltanto le grandi e forti emozioni a coinvolgere l’esistenza.
Ami viaggiare. Che cosa ti rimane dei tuoi viaggi? Memorie che trasporti nei tuoi lavori?
Quando si parte per un viaggio ci si porta dietro una memoria che ha a che fare con ciò che si è visto in precedenza, con i luoghi abituali in cui si è vissuto. Ho avviato un’indagine visiva sulle tracce che restano negli occhi e vengono riproposte nel nostro modo di guardare. Per osservare e rendere tangibile questo processo uso la fotografia e il viaggio.
Hai trascorso un lungo periodo a Parigi e hai frequentato l’Université Paris 8. Qui hai capito dove non vuoi andare. Invece qual è la tua direzione?
A Parigi ho trovato molto e lasciato altrettanto. Vorrei tornarci un giorno. Ora mi dedico a un nuovo progetto che ha a che fare con le somiglianze, con le rime eidetiche che si trovano tra uomo e natura, in un reciproco rapporto di scambio di influenze, di imitazione e adattamento. La natura si adatta all’uomo e l’uomo assomiglia alla natura. Certi marmi, ad esempio, sono così simili all’epidermide umana da esserne indistinguibili se visti a una certa distanza. Allo stesso tempo, da millenni l’uomo imita la testura della pietra e continua a farlo anche ora.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
A causa del microclima veneziano.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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