Biennale di Venezia. L’opinione di Achille Bonito Oliva
A poco più di un mese dalla chiusura della rassegna veneziana, il critico e curatore dice la sua sulla Biennale diretta da Christine Macel. Fra elogi, punti di contatto e qualche critica.
Viva Arte Viva. Cosa hai pensato quando hai letto il titolo della Biennale di quest’anno?
Io penso sempre che l’arte sia un sostantivo che non merita aggettivi: “povera”, “viva”… Perché questo è il segno di una volontà ideologica di voler dare a tutti i costi una funzione all’arte. L’arte non serve ad alcunché, è questa la sua grande ricchezza. L’aggettivazione del sostantivo arte implica sempre l’ottimismo della ragione e la speranza di un futuro migliore. Ma l’arte progetta il passato e quindi ha una sorta di atemporalità che assorbe tutti i tempi.
Quindi questa aggettivazione di cosa è frutto?
Beh di una cultura tipicamente francese. E direi cartesiana.
Come hai vissuto questa Biennale al primo impatto con i suoi colori, con la sua ricerca di interazione…
È ovvio che questa edizione vuole esprimere anche un vitalismo.
Lo condividi?
Ritengo che l’arte sia un contenitore di molteplici aspetti. Per cui la riduzione alla vitalità, e il bisogno di volere in qualche modo contrapporre alle problematiche della realtà l’ottimismo della creazione, onestamente mi sembra anche questo frutto di una cultura schematica. Francese…
E se ti chiedo di parlarmi anche della biennale del 2015 in relazione a tutto questo?
Era più esplicitamente ideologica. Basterebbe segnalare le prediche politiche a cui hanno sottoposto i visitatori attraverso delle conferenze che erano piuttosto dei monologhi che rasentavano la preghiera.
Tra le due quale preferisci?
Semplificando?
Semplificando!
Preferisco quella del 2017.
Quali legami con le tue Biennali? Hai trovato una familiarità?
Ho trovato una familiarità nei transpadiglioni della Macel. Nel 1993 io avevo “bucato” la territorialità dei padiglioni, dialogando con i commissari e innestando Nam June Paik nel padiglione tedesco, Joseph Kosuth in quello ungherese. E poi attraverso un progetto di 12 mostre che invadevano tutta la città di Venezia dando luogo a un vero e proprio nomadismo per lo spettatore che circolava in questa città, che io considero la repubblica delle arti. La mia Biennale era multimediale, transnazionale e multiculturale. Implicava presenze che andavano da Almodóvar a Wenders, Greenaway. Per cui i linguaggi si attraversavano e svolgevano un compito, ovvero quello di rappresentare il fatto che l’arte è sempre frutto di sconfinamenti. Un po’ come avevo fatto vent’anni prima, nel 1973, con Contemporanea al parcheggio di Moretti con arte, cinema, teatro, musica, architettura, danza e tutti i diversi linguaggi.
Conoscevi già la Macel? Avevi già visto le sue mostre?
Avevo già un’opinione che è stata confermata: lei è portatrice di quella che è una funzione del museo. Ovvero dare un’ortopedia, mettere in fila.
Dunque lei è portatrice di questa istanza?
Lei è portatrice di una visione istituzionale della Biennale.
Parliamo dei padiglioni nazionali.
In generale i singoli padiglioni non possono che essere delle frontiere aperte. Che conservano l’accento del territorio, ma lo esprimono attraverso un linguaggio aperto assolutamente internazionale. Riescono a sviluppare e a rappresentare degli aspetti di un’umanità terrorizzata, toccata dal terrorismo, dalla guerra di religione, dalla violenza, da una parte. E dall’altra a conservare una disciplina linguistica che permette all’arte di non essere solo un testimone a carico, ma di sviluppare una durata del linguaggio. Da qui la necessità anche della sintesi e della selezione.
In funzione di questo quali sono i padiglioni che ti sono piaciuti? Quale è la tua classifica?
Tedesco, australiano e italiano.
Ma non è che alla fine il vero direttore artistico di tutto ciò è Paolo Baratta?
Ma non direi, no, perché allora significherebbe che due anni fa si sarebbe contraddetto. Io credo molto nella scrittura espositiva del curatore, che sviluppa una narrazione interpretativa e tematica. È del curatore la responsabilità, altrimenti fa solo manutenzione.
Ritieni che la Macel sia una filippina della critica?
Lei non è assolutamente una filippina della critica, proprio per quello che ho detto. Fa parte di quella serie di curatori che io stimo.
Questo ritorno al gesto dell’artista è una issue o una furbata?
Credo che questo risponda sia al bisogno di affermare un’arte al positivo, che non sia quaresimale, in bianco e nero, e che attraverso il colore esprima il bisogno di realizzare forme di un immaginario anche consolatorio.
Quanto c’è di simile alla Transavanguardia?
Anche lì abbiamo restituito dignità e identità all’artista che era stato colpevolizzato dalla politica. Chiedevamo all’arte di non essere più una domanda ma una risposta. La differenza però c’è: sta nel fatto che le mostre che io ho realizzato (che trovano la loro sintesi nella Biennale nel 1993) è che hanno affrontato la pre-storia, la post-storia. La cosa importante è che la Transavanguardia ha sviluppato un rovesciamento riuscendo a ridare centralità all’arte europea e all’arte italiana. Perché la Transavanguardia lavora anche sulla memoria: la memoria dell’arte europea ha 2000 anni, quella americana 300. Si recupera la pittura non come strumento tecnico, ma la pittura è un tramite che vuole superare anche la compostezza dell’evoluzione dei linguaggi.
Insomma questa Biennale ha molti spunti che derivano da quello che tu hai impostato un quarto di secolo fa…
Sì, alla fine mi ha convinto proprio per questo.
Una cosa che non ti è proprio piaciuta.
Un eccesso di presenze di artisti provenienti da quei luoghi esterni all’occidente. Come se fosse un risarcimento. Una cosa che io trovo paternalistica.
E poi?
Poi ho trovato molto modesto il padiglione francese e anche quello inglese.
Ritieni che ci sia un tratto comune tra le Biennali curate da donne?
Vedo una qualche assonanza con quella di Bice [Curiger, N. d. R.]. Direi proprio nel tentativo di portare alla luce figure di artisti in ombra, quindi un’attenzione sensibile verso figure che il sistema dell’arte aveva un po’ accantonato.
Comunque tu vuoi bene alla Biennale, no?
Molto bene. Innanzitutto sono felice di come si stanno sviluppando i messaggi e le teorie impostate da me nel 1993. E poi voglio bene a Venezia e alla Biennale al punto che quando curai la mia edizione mi trasferii in città per un anno e mezzo. Non è che venivo a lavorare ogni tanto, no, mi ero messo proprio a lavorare nella Biennale. Io ero quello che spegneva le luci la sera. E se mia moglie il fine settimana mi voleva raggiungere ero io a pagarle il biglietto senza gravare sulle spese tra le facce stupite dei funzionari amministrativi.
‒ Massimiliano Tonelli
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