La crepa: due problemi nel mondo dell’arte. Finalmente 2 cose interessanti. L’opinione di Tosatti
Il mondo dell’arte rivela le sue crepe. Ed era finalmente ora. A partire dalla rinuncia da parte di Marina Abramovic ad aprire il suo Institut per la performance e la critica di Pablo Echaurren alla mostra sul ’68 alla Galleria Nazionale. L’opinione di Gian Maria Tosatti.
Il 13 ottobre due notizie hanno attratto la mia attenzione. La rinuncia da parte di Marina Abramovic ad aprire il suo Institute per la performance e la critica di Pablo Echaurren alla mostra sul ’68, attualmente alla Galleria Nazionale. La ragione per cui ho voglia di scriverne risiede nel fatto che entrambe le cose hanno rivelato un elemento raro e meraviglioso: una crepa. Sono anni che, a fronte di un mondo dell’arte disgraziato e sempre più in difficoltà, si è andata costruendo l’immagine mitologica di alcuni artisti come sorta di miliardari vincenti che, sì, hanno sofferto da giovani, ma adesso sono nell’olimpo delle ricchezze. E, invece, non è vero niente. Gli artisti-dinosauri non esistono.
GLI ARTISTI DINOSAURI
Sono una invenzione come la gran parte delle cose che ruotano attorno a questo nostro mondo che – come diceva Genet – trasforma la polvere in oro. Ma è un oro che luccica solo davanti agli spotlight che illuminano le opere. Alle spalle delle luci, dove è l’artista, nelle stanze della sua casa, del suo studio, c’è ombra, sforzo, lontananza, miseria. C’è, come scrive Pablo Echaurren, «la sporcizia del sogno (collettivo)». Marina Abramovic si spezza. Alla sua età un rinvio è una sconfitta, che personalmente prendo come una testimonianza di umanità in un momento in cui le sue opere diventano sempre più finte, inutili, sterili. La migliore performance di una donna settantenne è fallire. In questo sforzo andato in malora c’è tutta la verità del tempo che contraddice le plastiche facciali, le mastoplastiche, i fondotinta passati con la spatola, i capelli di Berlusconi, i muscoli da mostrare (che siano fisici o economici). Nel fallimento dello sforzo, nel fallimento della tenuta, nel naufragio del sogno più alto, nella schiena spezzata alla fine della parabola, c’è l’unica cosa che noi artisti siamo chiamati a consegnare alla morte: una verità, prima di sparire.
FALLIMENTI E CRITICHE
Questa performance di Marina Abramovic, il fallimento del suo inutile e velleitario Institute, strombazzato da Lady Gaga nuda o da Jay-Z che duetta canzonette, è la migliore performance dell’artista da molti anni a questa parte. Credo che immaginare la Abramovic in ginocchio, asciugare le sue lacrime con uno straccio dal pavimento di casa, sia assai meglio che vederle pulire ossa di vacca in un magazzino del gran circo. E’ una piccola, miserabile, incomparabile verità. L’unica cosa che conta, l’unica cosa per cui noi, crudeli sacerdoti di un dio che non sorride perché non ha volto, siamo chiamati al nostro servizio.
E così arrivo ad Echaurren che, di colpo, prende in mano una penna, e compie un’azione di cui si sentiva una certa mancanza: scrive una critica. Per trovarne un’altra di questo stesso livello credo dovremmo farci un giretto in emeroteca, perché negli archivi di internet, che guardano indietro non più di un ventennio, davvero non credo la potremo scovare. Pare uscita da un giornale degli anni ’40, ’50, primi ’60 al massimo. Insomma, quando ancora la gente aveva voglia di dire la sua verità e prima che i discorsi si macchiassero di stracci di ideologie, di omissis e, infine, di cieco conformismo. Echaurren fa una critica alla mostra di Ester Coen. E non mi importa affatto se sia una critica giusta o sbagliata, se colpisca al cuore quella mostra, oppure ponga un problema improprio, questo sarà, appunto, da discutere.
CREPE E CASTELLI IN ARIA
Quello che mi sembra interessante è che le poche righe pubblicate sull’Huffington Post dall’artista, ex illustratore di Lotta Continua, pongano il suo scacco alla mostra, innescando quindi una dialettica motivata, dando l’occasione per poter discutere davvero, aprendo, appunto, una crepa nella nelle cose fatte e finite lì, perché del sangue scorra ancora oltre il belletto. Se fossi in Ester Coen o in Cristiana Collu, sarei felice di registrare che la mia mostra ha acceso uno sprazzo di intelligenza, una opposizione che, in un modo o nell’altro, afferma una verità con cui fare i conti, cui dare necessariamente un seguito. D’altra parte, i castelli che non hanno crepe, sono solo i castelli in aria, quelli che, appunto non esistono, come l’Institute della Abramovic. La presenza di fratture, ci salva dal pericolo che quello che diciamo di essere o che raccontiamo della nostra storia coincida inquietantemente con quello che vorremmo essere o vorremmo essere stati.
–Gian Maria Tosatti
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