Fino a qui tutto bene. Renaud Auguste-Dormeuil a Roma
Macro Testaccio, Roma ‒ fino al 26 novembre 2017. Un drone in volo con una scritta luminosa, rassicurante. “Jusq’ici tout va bien”, fino a qui tutto bene. Le lettere a led sono al centro del Padiglione A del Macro Testaccio e promettono di condurre a spazi di evasione terapeutici, inquadrature serene al di là del vissuto traumatico. Ma il problema è l’atterraggio.
L’illusione prodotta da Renaud Auguste-Dormeuil (Parigi, 1968), alla prima personale in un museo italiano, è quella di fissare il tempo in un eterno presente, rinviare l’inevitabile a data da destinarsi e dissimulare le patologie sociali in realtà alternative. I primi passi da compiere nella sospensione indotta conducono a una lingua di cemento, il tracciato da seguire all’interno di un cerchio in terra. L’installazione è When the paper (2013), al centro sono posti un tavolo e dei fogli sui quali scrivere preoccupazioni impellenti, motivi di paure e insicurezze. Gli stessi andranno poi immersi in un secchio d’acqua e, nel vederli svanire, ci si libererà del peso di afflizione che recavano impresso. Passato e futuro si contraggono e cristallizzano in un tuffo calmo e autoassolutorio, placebo dal continuo up-to-date verso la contemporaneità inafferrabile. Il rituale di stampo orientale riduce il dolore a un’esperienza introspettiva, intima. Una citazione privata del disagio che si fa, però, ben presto manifesta nelle bardature nere per cavalli di Starship. Le gualdrappe di stoffa evocano funerali pubblici e grandiosi, impossibili da trascurare distogliendo lo sguardo. Non c’è funzione religiosa, non c’è ancora il pianto, ma il timore fondato è che i foglietti disciolti in acqua non abbiano adempiuto al proprio dovere.
THE DAY BEFORE
Alle pareti pannelli ancora neri celano stelle immobili. Mappe celesti di Hiroshima, New York, Guernica… non nella versione del celebre day after ma nella visione falsamente placida del The day before (2004). Non è ancora accaduto nulla, viviamo nell’ultimo ed eterno giorno d’innocenza, Jusq’ici tout va bien. L’insegna illuminata continua ad arringare dal suo posto d’onore, ma sulla veridicità dell’affermazione comincia a sorgere più di qualche dubbio. Alla ribalta sale una realtà nuova, un banale 10 settembre 2001 incurante del futuro e momento trascurabile nella storia evenemenziale. L’artista si fa talent scout e creatore, truffatore del mondo noto. La riflessione è indagata ulteriormente nella serie Uncover (2013), in cui copertine di riviste d’epoca sono in parte tagliate, scavate, fino a mostrare immagini dall’interno. Figure sommerse da articoli e fotografie portate alla luce, all’interazione con protagonisti e paesaggi da prima pagina. Il risultato è l’invenzione e visione di eventi mai esistiti, la messa in scena incoerente di momenti poco credibili.
LUNGO IL PRECIPIZIO
Un adattamento di Vertigo, pellicola illustre di Alfred Hitchcock tradotta in Italia con il titolo La donna che visse due volte, chiude la mostra. Impossibile seguirne la trama, ogni parola pronunciata è soppressa e l’arco narrativo si dissolve in un’incomprensibile follia. Un Hitchcock senza suspense, senza convinzione. Jusq’ici tout va bien, la frase cult del film L’Odio di Mathieu Kassovitz è sempre più refrain sarcastico. Continua a essere ripetuta senza sosta abbandonando la sala, ripercorrendo lo spazio passo dopo passo con meno fiducia. Ritrovandosi tutti a precipitare, senza soluzione di salvezza, da un palazzo di cinquanta piani.
‒ Raffaele Orlando
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