Dai maestri del corpo all’iconoclastia. Tre mostre da vedere a Verona

A Verona, nell’ambito della fiera d’arte contemporanea della città, hanno inaugurato mostre, eventi appuntamenti. Dal tris Opalka, Lüthi, Ontani a Gabriele Basilico, passando per una collettiva eterogenea che racconta il tema delle immagini: ecco tre appuntamenti di un programma serratissimo.

La settimana dell’arte di Verona non è stata scandita solo dalla fiera, ma da un programma di festival (come il Festival Veronetta, con mostre ed eventi) e appuntamenti che ha invaso tutta la città e che ha scelto musei, istituzioni e spazi privati come partner d’eccellenza di questo percorso che durerà fino a gennaio, scegliendo ArtVerona come momento d’eccellenza per aprire le danze.

OPALKA, ONTANI, LÜTHI

Si parte dalla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, che apre nella giornata inaugurale della fiera con una mostra a tre curata da Patrizia Nuzzo, direttrice dell’istituzione e Adriana Polveroni, alla guida invece di ArtVerona. Si intitola Il mio corpo nel tempo e mette in scena tre star dell’arte contemporanea, personaggi indipendenti, lontani dalle mode e dalle correnti, talvolta occasionalmente tangenti o vicini a esse, con tre approcci diversi nel guardare lo scorrere dei minuti e il corpo. C’è, infatti, il corpo protagonista di Luigi Ontani che ripete nelle sue immagini i grandi classici della storia dell’arte o della mitologia. Il suo corpo è prima giovane, poi ritratto nel presente. Il tempo è a volte quello caleidoscopico dell’Ombrofago, ripreso nell’inseguimento dell’ombra da mangiare: ogni scatto è una lancetta che si sposta. Da non perdere una vera e propria chicca, l’opera Le Ore, proveniente da una collezione privata, dove il corpo dell’artista scandisce il tempo come un orologio.
La seconda grande sala è dedicata a Urs Lüthi. L’artista svizzero è presente con una serie di opere degli Anni ’60, immagini fotografiche che lo ritraggono da giovane nell’atto di simulare il proprio processo di invecchiamento, immaginandosi quarant’anni dopo. Ma ci sono anche gli Small Monuments, nei quali il maestro gioca con l’idea del corpo eterno, quello che viene impersonato dalla statuaria pubblica che consegna il soggetto alla storia, e ne disinnesca con ironia la funzione, riportando il tutto a una dimensione ben più ridotta. Chiude il cerchio la sua produzione più recente, nella quale Urs riscopre il colore e manipola la natura attraverso una serie di grandi collage digitali. Ma la stanza in cui il rapporto tra carne e tempo si realizza in pieno, in un finale culminante, è sicuramente quella dedicata a Roman Opalka. Non c’è edonismo né sperimentazione. Opalka è come un monaco che scandisce con la sua voce (in sottofondo una registrazione) i giorni che si susseguono. Conta in polacco, “nella lingua di mia madre”, come usava dire. La sua ricerca è esistenziale, è una partita di vita: ogni opera è una data, una emozione, un ricordo, trasposti tuttavia con un gesto puramente concettuale: un autoscatto che non lascia trasparire alcuna emozione, alcuna cronaca, ma proprio perché rappresenta un solo giorno è irripetibile. Ecco perché Opalka prima di morire chiese a sua moglie di promettergli che avrebbe bruciato tutti i negativi. E lei lo fece.

Il mio corpo nel tempo. Luigi Ontani, AnamorPose “L’Ombrofago”, 2008. Collezione dell’artista

Il mio corpo nel tempo. Luigi Ontani, AnamorPose “L’Ombrofago”, 2008. Collezione dell’artista

ICONOCLASH

Ci spostiamo al Museo Civico di Castelvecchio, in quel gioiellino che fu restaurato da Carlo Scarpa dal 1958 al 1964 e che oggi si presenta con un allestimento che è già di per sé un’opera d’arte, in cui sono conservati oggetti, tele e manufatti a partire dal VII sec. a. C. fino al 1700. In questo contesto si muove la mostra a cura di Antonio Grulli, in collaborazione con Ketty Bertolaso, Margherita Bolla, direttrice del museo, Alba Di Lieto, dal titolo Iconoclash, con opere provenienti dalle collezioni degli aderenti al Consorzio Collezionisti delle Pianure.
23 gli artisti, tutti nati tra gli Anni ’60 e gli Anni ’80, tranne i tre mai troppo compianti Fabio Mauri, Ketty La Rocca, Jiri Kolar. Il percorso espositivo si sviluppa chiaramente a partire da due assunti: il primo è più allusivo ed è contenuto nel titolo. Icone del presente, icone del passato si incontrano. A volte è dialogo, talvolta è clash. Oppure c’è un sottile rimando al tema dell’iconoclastia, argomento tristemente attuale, se pensiamo alle storie di architetture e monumenti distrutti dall’Isis nel corso dell’ultimo decennio. E naturalmente c’è la fruizione di massa nella società dello spettacolo. Gli interventi pensati da Grulli sono accennati, i rimandi tra le opere della collezione e “gli ospiti” sono spesso di carattere formale, in un gioco di sguardi. Tra i più interessanti c’è Simon Starling che lavora sulle foto d’epoca di una mostra all’Arts Club di Chicago del 1927 di Costantin Brancusi, curata da Marcel Duchamp e sulle collocazioni. Ryan Gander nasconde una foto in una busta nera e la incornicia. Lo spettatore ha il compito di meditare sul portato esuberante dell’immagine negata. Paola Angelini reinterpreta la grande pittura veneziana conservata alle Gallerie dell’Accademia, nella fattispecie una Pietà di Tiziano, l’ultima opera del grande maestro. Anche Nicola Samorì ripensa i grandi modelli pittorici del passato, distruggendoli parzialmente e rivelando su una lastra di zinco quasi una sinopia. Flavio Favelli presenta una composizione di materiali di riuso, ma oltre l’opera è interessante anche il posizionamento che segue, smaterializzandoli, una serie di quadri dalla collezione del museo, riproponendone forme e dimensioni. Così come il monocromo in mostra di Fabio Mauri riecheggia la grana ruvida dei materiali di Carlo Scarpa. Si sente ovviamente a casa la testa di scultura romana di dea, conservata a Ercolano, ritratta da Mimmo Jodice.

Daniel Spoerri, Faux Tableau piège, serie Mosaiques, anni '50

Daniel Spoerri, Faux Tableau piège, serie Mosaiques, anni ’50

LA MOSTRA DI GABRIELE BASILICO

Chiude il nostro itinerario la Fondazione Cariverona con un progetto curato da Luca Massimo Barbero, un omaggio a Gabriele Basilico, che si è tenuto nel bellissimo spazio de La Rotonda, esempio di archeologia industriale veronese, costruito nel 1930 e in stato di abbandono dal 1980. Oggi tornato al suo antico splendore grazie al progetto di riqualificazione voluto dalla Fondazione e affidato nel 2003 a Mario Botta.
Nel 2005, inoltre, Cariverona aveva commissionato a Gabriele Basilico una documentazione dello spazio e dei lavori. Immagini, 83 nella fattispecie, che sono state proiettate nella sala principale della Rotonda.

Santa Nastro

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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