Pinuccio Sciola e Maria Lai. Un dialogo sacro
Palazzo di Città, a Cagliari, dedica ai due artisti una sala, imbastendo un dialogo tra le loro storie, le loro figure e due opere perfettamente accostate. Il senso del sacro, il sentimento del tempo, il desiderio d’infinito, nel lavoro di due straordinari maestri sardi.
Pinuccio Sciola (1942-2016) era l’anima profonda di San Sperate, un paesino in provincia di Cagliari che gli diede i natali e che fu la sua casa, per tutta la vita. Un angolo minuscolo dell’isola, a cui l’artista dedicò la cura e l’attenzione che si dedicano a un nido, alla propria terra, alla famiglia e alla comunità. Ed egli fu, di quel posto, un centro costante di energia umana e intellettuale, il motore di un’esperienza artistica diffusa sul territorio, tra le centinaia di murales e i giardini scultorei: opere e luoghi sbocciati sull’onda della sua volontà visionaria, coinvolgendo amici e residenti.
Sciola fu amico, maestro e riferimento per i compaesani, per molti artisti sardi e per i tanti intellettuali e creativi che di là passavano e che si fermavano, inevitabilmente, a casa sua: le visite, le cene e i pranzi improvvisati in casa Sciola, con gente del calibro di Dario Fo, Eugenio Barba, Gillo Dorfles, Renzo Piano, Man Ray, Moni Ovadia, Roberto Benigni, Francesco Guccini, Pat Metheny, erano momenti di convivialità spontanea e occasioni di apertura, di innesti, di riflessioni e scambi.
È così che sono cresciuti i suoi figli, Chiara, Tomaso e Maria: oggi tutti impegnati, con le loro vite più o meno lontane dell’arte, a celebrare il ricordo di lui e a difenderne i valori, l’eredità. Per questo è nata una Fondazione che porta il suo nome, insieme alla prima edizione di Sant’Arte, un festival messo in piedi con una sensibilità rara, una vocazione speciale per l’ospitalità e una grande attenzione per i dettagli. Tanto ancora da fare, dalla stesura di una progettualità culturale forte alla costruzione di una rete di sostegno economico, passando per un piano scientifico di archiviazione delle opere di Pinuccio. Una grande sfida all’orizzonte, ma le energie messe in campo sono quelle giuste.
E intanto, nei dintorni, la memoria di lui aleggia, come il suono delle sue pietre, dislocate a centinaia tra il Giardino Sonoro e il Giardino Megalitico di San Sperate: un sussurro, una presenza granitica, qualcosa di lieve e di antico. Oltre le cronologie note.
UNA STANZA NEL MUSEO DI CAGLIARI
Palazzo di Città, a Cagliari, ha di recente intitolato a Sciola uno spazio, nell’ambito del riallestimento della collezione inaugurato la scorsa estate, con la nomina della nuova direttrice dei Musei Civici, Paola Mura. È la sala più antica ed è dedicata al tema del sacro. Nulla che riguardi, come ci si aspetterebbe, la ricerca che ha reso celebre l’artista in Italia e nel mondo. Non ci sono le sue pietre sonore, i suoi megaliti intagliati con la perizia di un liutaio, la precisione di un pitagorico e la scintilla di un poeta. Non c’è la musica dei suoi sassi, oggetti misteriosi da cui emana la luce primigenia in forma di note e di respiro, di materia grezza e di astrazione.
Qui si è scelto di raccontare un altro Pinuccio, meno noto. Sciola artista michelangiolesco, che nella sostanza duttile del legno trova spunto poetico e occasione di tensione plastica. Al centro, sul pavimento, c’è una sola opera. Un Crocefisso degli Anni Sessanta, immagine ricavata da un tronco d’ulivo, che il giovane artista vide e riconobbe all’istante. Intrappolato in quel blocco c’era il corpo contorto di un Cristo, la schiena arcuata e le membra allungate, il viso contratto e i muscoli tesi. Con pochi colpi d’ascia sbozzò il soggetto, procedendo “in levare”: la forma venne, sintetica e nervosa, come se si trattasse di schizzarla sul foglio, usando la scure invece di un pastello.
Intorno il buio e un unico spot puntato, a sagomare i contorni. La sensazione è che un segreto si sprigioni dal legno appena sgrossato: la sofferenza di Cristo, che è quella dell’umanità tutta, si concentra in questa maschera essenziale, nel corpo convulso, nelle ferite che da un lato disegnano la forma e dall’altro la negano, consegnandola all’ambiguità. Un esempio di non-finito, ispirato certamente da alcuni capolavori del Buonarroti, dai mitici Prigioni alla Pietà Rondanini.
MARIA LAI, AMICA DI UNA VITA. IL DIALOGO INFINITO
Ma il cuore di questo spazio è un dialogo silenzioso: il sacro si veste di risonanze mute, nella dinamica perfetta tra due presenze. Pinuccio parla con l’amica Maria Lai (Ulassai, 1919 – Careddu, 2013). Il Cristo ligneo di lui si specchia nella Sindone di lei, che emerge dall’oscurità sulla parete di fronte. Perfettamente centrale, in asse con la scultura. Questa in orizzontale, poggiata al suolo; quella in verticale, appesa. Si tratta di un tessuto bianco rettangolare, su cui la grande artista sarda ha ricamato una silhouette vagamente riconoscibile, un intreccio di fili scuri simile all’impronta del corpo di Cristo sul lenzuolo funerario.
Maria Lai scolpiva il tempo, nella grazia dell’intreccio e nella leggerezza dei materiali, nella ritualità dei gesti e nello scorrere di pagine, tessiture, paesaggi e storie. L’opera accostata a Sciola, insieme a un’altra collocata all’ingresso del museo, sono le ultime acquisizioni temporanee, giunte per arricchire la collezione nella sua veste nuova.
Sciola, che a Maria Lai fu sempre vicinissimo, così commentò la sua morte, nel 2013: “Nutrivo una profonda stima, che sentivo condivisa, e oggi la sua morte lascia un grande vuoto. Era l’emblema dell’immagine fantasiosa dell’infanzia, viveva come una fata, silenziosa e laboriosa, notturna. Ogni volta che mi soffermo sui suoi lavori respiro straordinarie emozioni. Non abbiamo mai lavorato a un progetto comune, ma avevamo continue frequentazioni, ci scambiavamo idee e opinioni, ed era felicissima quando due anni fa le portai delle mie pietre che sistemò nel suo bel giardino di Cardedu. Mi mancherà molto, non ricordo nemmeno con esattezza come e quando l’ho conosciuta. Ricordo i suoi doni per la nascita di mia figlia, che continuò scherzosamente a chiamare MariaPietra, e ricorderò per sempre le sue mani preziose, instancabili, mani che hanno accarezzato la mia vita”.
Pochi mesi dopo quella perdita, nell’ottobre del 2013, Pinuccio avrebbe eseguito un intenso concerto dinanzi alla tomba di Michelangelo, in Santa Croce, a Firenze. Il marmo statuario di Carrara, diceva, è l’unica pietra che – per le sue caratteristiche fisiche ‒ non genera suoni. Ed ecco il messaggio per il genio rinascimentale: i suoi capolavori erano muti, ma le pietre possono parlare. E le suonò, nell’aria tesa e austera del luogo, mentre il sacro, la morte, la vita, l’origine e il destino della materia si facevano partitura, fra le sue mani, i suoi strumenti e il suo desiderio d’assoluto.
Niente è più antico di una pietra. In essa si condensano le vibrazioni di ere lontane, una stratificazione invisibile che giunge – per ipotesi – fino allo stadio aurorale. Una pietra allora è una porta sull’infinito, il ritmo circolare della storia che si è fatto frammento; così come un filo è ciò che lega, che si estende, che culla, racconta e conduce. Due forme di preghiera: suonare, annodare. Pinuccio e Maria. E l’idea del sacro oggi riecheggia nello spazio raccolto di un museo, mentre due maestri sardi continuano a indicare la strada. E a parlarsi, tenendo il tempo.
‒ Helga Marsala
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